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22/08/2014

Ridimensionare l'Ilva e ridurre la produzione di acciaio. Lo chiedono le banche svizzere

di Gianmaria Leone da Taranto Oggi del 24 giugno 2014

La vicenda dell’Ilva di Taranto continua ad essere seguita con grande attenzione in Europa. Dopo l’analisi prodotta lo scorso 2 giugno dalla “JP Morgan Chase & Co.”, società finanziaria con sede a New York leader nei servizi finanziari globali, ora è il turno della banca svizzera UBS. Che attraverso una relazione redatta dall’analista Carsten Riek, esprime un pensiero molto chiaro sul futuro del siderurgico tarantino: se l’Ilva chiude o si ridimensiona, automaticamente aumenterà la produttività e soprattutto la redditività di diversi siti siderurgici europei. Il che potrebbe anche servire a risolvere, o quanto meno a porre un freno, alla sovracapacità produttiva dell’industria siderurgica europea, come tra l’altro sostenuto anche dalla JP Morgan.

A sostegno di questa tesi, secondo l’analisi dell’UBS una chiusura parziale dell’Ilva diminuirebbe del 20-30% l’eccesso di capacità produttiva dell’industria siderurgica europea: una chiusura totale invece, inciderebbe del 58% secondo la banca svizzera. Che sostiene come se la chiusura, parziale o totale, sarebbe “una cattiva notizia per gli 11.000 dipendenti dell’Ilva”, ma non certamente “per i suoi concorrenti”. I tassi di utilizzo della capacità produttiva dei loro stabilimenti infatti, salirebbero del 74% nel caso di una chiusura parziale, sufficiente a giustificare un aumento del prezzo della tonnellata di acciaio dai 3 ad un massimo di 18 di euro (in caso di chiusura totale dell’Ilva). La chiusura completa potrebbe invece portare i tassi di utilizzo all’80% entro il 2018.

Inoltre, secondo l’analisi della banca svizzera l’acquirente, o gli acquirenti, che andranno a comporre la cordata che gestirà l’Ilva di Taranto, dovranno ottenere il sostegno, o forse sarebbe meglio dire il lasciapassare, della Commissione europea. Nel caso di ArcelorMittal infatti, come abbiamo già avuto modo di sostenere di recente, le autorità garanti della concorrenza interverrebbero per evitare che nel settore della produzione di acciaio inox il gigante asiatico non superi il 40% delle quote di produzione nel mercato europeo (in caso contrario AncelorMittal sarebbe infatti costretta a fermare i suoi impianti presenti in Francia, Belgio, Germania e Spagna).

Del resto, nella sua analisi la UBS evidenzia che se da un lato c’è interesse a proteggere la ristrutturazione del sito italiano, dall’altro la Commissione europea deve anche proteggere il mercato europeo dalle importazioni di acciaio provenienti dall’Asia. Inoltre, secondo i calcoli della banca svizzera, un’eventuale acquisizione dell’Ilva potrebbe pesare non poco sul conto di ArcelorMittal. Ed in questo contesto, l’UBS ritiene che i principali beneficiari della ristrutturazione di Taranto, che ricordiamo comporterebbe comunque un ridimensionamento dell’attività produttiva dell’Ilva come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte su queste colonne, sarebbero il gruppo tedesco Salzgitter, i filandesi della Rautaruukki, gli svedesi della SSAB e gli austriaci della Voestalpine. Una contrazione dell’offerta infatti, per l’UBS farebbe migliorare i margini operativi di queste tre aziende.

Del resto, parliamo di società che da diverso tempo hanno intrapreso strade ben precise. Ad esempio, il gruppo siderurgico tedesco Salzgitter ha indicato di prevedere un taglio di almeno 1.500 posti di lavoro entro la fine del 2015. Il gruppo ha annunciato il varo di un piano di ristrutturazione denominato ‘Salzgitter Ag 2015’, proprio in risposta alle difficili condizioni del mercato dell’acciaio e della situazione concorrenziale. Salzgitter non ha però ancora specificato nel dettaglio dove saranno soppressi i posti di lavoro, ed ha chiuso il 2013 con un passivo di 400 milioni di euro. Gli svedesi della SSAB sono invece da tempo presenti in Australia e stanno rafforzando la loro presenza in America, dove vogliono ampliare lo stabilimento di Montpelier nello stato dello Iowa. Del resto è proprio grazie ai prezzi più alti e ai maggiori volumi prodotti negli Stati Uniti se il gruppo svedese ha chiuso il primo trimestre 2014 con un attivo di 26 milioni di corone svedesi.

Discorso simile va fatto per gli austriaci della Voestalpine. Che lo scorso 14 maggio hanno inaugurato un nuovo stabilimento a Profilform (Cina), per un investimento pari a 20 milioni di euro. Il gruppo austriaco vanta già 2.200 dipendenti nel paese asiatico, dalle cui attività genera un fatturato annuo di 220 milioni di euro. Nel mese di aprile invece, la Voestalpine ha ufficializzato un investimento di 550 milioni di euro, il più grande nella storia del gruppo austriaco all’estero, per la costruzione di un impianto di riduzione diretta (processo che riguarda la trasformazione del minerale in spugna di ferro) in Texas (USA). L’esercizio sociale 2013/14 (1 aprile 2013 – 31 marzo 2014), nonostante la crisi del settore, ha registrato un fatturato maggiore del 2,6% rispetto: 11,5 miliardi di euro rispetto ai 11,2 miliardi di euro dell’anno precedente.

E’ chiaro dunque che già soltanto un eventuale riduzione dell’attività produttiva dell’Ilva, potrebbe portare ad un cambio di strategia per diversi gruppi europei. Secondo l’analisi dell’UBS, il problema dell’Ilva non sarà risolto prima della fine dell’estate. Un problema che richiede comunque una soluzione rapida, tanto più che l’attuale calo dei prezzi dell’acciaio aggrava la situazione. Secondo gli ultimi dati pubblicati da Worldsteel, il rimbalzo del settore dell’acciaio in Europa ha registrato un -2,7% anno su anno a maggio e del 4,6% per i primi 5 mesi dell’anno corrente, che ha portato ad un significativo aumento delle scorte. Del resto, anche la JP Morgan nella sua analisi sosteneva come la sicura diminuzione della produzione dell’Ilva, andrebbe a ridurre la sovra capacità produttiva dell’acciaio registrata negli ultimi anni in Europa: “Nel nostro visualizzare un consolidamento dell’industria siderurgica europea meridionale (Mittal-Marcegaglia) avrebbe un impatto significativo e benefico per tutto il settore europeo dell’acciaio, sia in termini di prezzi che di riduzione della volatilità del prodotto durante il ciclo di rifornimento-smaltimento”.

Infine, l’analisi della banca svizzera tocca un’altra importante questione. La chiusura dell’Ilva infatti, avrebbe per lo Stato italiano costi significativi. A cominciare, ad esempio, dai piani di formazione che si dovranno porre in essere per consentire ai lavoratori di trovare un nuovo lavoro, in caso di esuberi forzati. La chiusura parziale del sito tarantino, comporterebbe un costo stimato tra i 600 e i 900 milioni di euro (basti solo pensare alla cassa integrazione per migliaia di lavoratori, comprese le ditte dell’indotto e le aziende e gli stabilimenti che dipendono da Taranto a partire da quelli di Cornigliano e Novi Ligure), oltre a 100 milioni soltanto per la formazione. I costi, in caso di chiusura totale del sito, salirebbero ad 1 miliardo di €. Ne vedremo ancora delle belle.

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