Forse alla Muqata, il palazzo presidenziale di Ramallah, non arrivano
le voci della strada. Forse la distanza tra la gente e il governo è
troppo ampia per permettere ai vertici di cogliere le pressioni che
arrivano dalla base. Dopo due mesi di quasi totale assenza sulla scena
pubblica, con pochi interventi che non hanno certo soddisfatto un popolo
che si sentiva tutto sotto attacco, il presidente dell’Autorità
Palestinese Abbas punta il dito contro Hamas, ripetendo lo stesso
mantra che per 50 gioni ha riempito le bocche dei politici israeliani.
La colpa della strage di Gaza è anche di Hamas: “Era possibile evitare tutto quello, duemila martiri, 10mila feriti, 50mila case distrutte o danneggiate”.
Allo stesso tempo, durante un’intervista, dopo aver ricordato che il
premier Netanyahu aveva dato il suo assenso ad uno Stato di Palestina
entro i confini del 1967 e chiesto a Israele di definire una volta per
tutte i confini, si è rivolto di nuovo contro Hamas, accusandolo di aver
mantenuto un “governo parallelo” a Gaza: l’esistenza di un
esecutivo ombra, ha detto Abbas, minaccia il governo di unità nazionale
formato a maggio. Fratture interne che sarebbero venute a galla anche
nell’incontro tra Meshaal e Abbas a Doha nei giorni scorsi: come riportava ieri sul Manifesto Michele
Giorgio, Hamas sarebbe stato a conoscenza di un presunto colpo di Stato
contro Abbas ordito da una parte dei leader di Fatah (tra cui l’ex
premier Fayyad e il leader dell’Olp Abed Rabbo). Secondo un giornale
kuwatiano, la fronda dentro il partito si oppone al presidente
considerato ormai un peso, distante dalla popolazione e ostacolo ai
diritti nazionali palestinesi.
Le accuse di Abbas potrebbero non piacere alla popolazione che, dopo
il calo di consensi verso il movimento islamista nell’anno appena
trascorso, ha appoggiato quasi in toto la strategia della resistenza
palestinese a Gaza. Le parole di Abbas sembrano andare
controcorrente anche rispetto ai leader islamisti che ieri hanno
ripetuto che la ricostruzione di Gaza sarà compito del nuovo governo di
unità nazionale, formato da Hamas e Fatah. La riconciliazione
non viene messa in dubbio, elemento questo che rappresenta un’ulteriore
sconfitta per la macchina da guerra israeliana che con i massacri nella
Striscia intendeva rompere l’alleanza tra le due fazioni rivali. ”Siamo
uniti nella scelta di proseguire e ricostruire Gaza”, ha detto uno dei
membri dell’ufficio politico di Hamas, Khalil al-Haya (che ha perso la
moglie e tre figli), durante la preghiera del venerdì tra le rovine
della moschea al-Morabetin, nel quartiere devastato di Shajaiye a Gaza
City.
Servirà tempo e denaro per ricostruire la Striscia. L’Onu
giovedì ha avvertito: se gli aiuti e i materiali da costruzione non
entreranno a ritmo serrato, Gaza non sarà ricostruita prima di 10-15
anni. Ieri intanto il Palestinian Economic Council for Development and
Reconstruction ha stimato in 40,4 milioni di dollari i danni ai siti
religiosi. Durante i 50 giorni di offensiva israeliana, i raid
militari hanno distrutto completamente 75 moschee, hanno gravemente
danneggiato due chiese, dieci cimiteri e altre 205 moschee. Tra le
moschee distrutte quella di al-Omari a Jabaliya, costruita nel 647 d.C.
Il portico e il minareto risalivano invece al periodo mamelucco (Medio
Evo).
E mentre i leader discutono, la popolazione di Gaza tenta di tornare
alla normalità: i pescatori gazawi, tornati in mare nei giorni appena
trascorsi, hanno detto di aver già notato dei miglioramenti nella
quantità di pesci pescati grazie all’estensione del limite a 9 miglia
nautiche a partire da oggi (12 tra un mese). Hanno trovato varietà di
pesce, sardine, gamberetti, hanno raccontato all’agenzia stampa Ma’an
news: “Certi pesci non li vedevamo più da tempo, costretti nelle tre
miglia nautiche dalla costa”.
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