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20/11/2014

Clima, il grido d'allarme dell'IPCC: basta idrocarburi

Il rapporto dell’IPCC*, tra incubo e rivoluzione

di Daniel Tanuro, da lcr-lagauche.org, traduzione di Giovanna Tinè

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Il gruppo di esperti intergovernativo sui cambiamenti climatici ha pubblicato la sintesi del suo quinto Synthesis Report, insieme ad un riepilogo per chi è chiamato a prendere le decisioni politiche [1]. La diagnosi non è una sorpresa: il riscaldamento globale sta avanzando.

Esso è causato principalmente dall’uso dei combustibili fossili, e le conseguenze negative sono più importanti degli effetti positivi. Probabilmente è ancora possibile evitare un aumento della temperatura media di più di 2°C rispetto al periodo pre-industriale, ma le politiche seguite negli ultimi venti anni porteranno ad un riscaldamento compreso tra 3,7 e 4,8°C (tra 2,5 e 7.8°C, tenendo conto dell’incertezza climatica) e ad un «alto rischio di impatti gravi, diffusi, e irreversibili a livello globale».

Una preoccupazione palpabile

La valutazione fatta in questa quinta relazione non è fondamentalmente diversa dalle precedenti, ma il grado di precisione dell’allarme è maggiore. Alcune zone d’ombra cominciano a schiarirsi e la preoccupazione degli autori è più evidente che mai.

L’espressione «virtualmente certo» (probabilità superiore al 99%) viene usata sempre più spesso per descrivere la probabilità di questo o quel fenomeno. Per esempio, diversi secoli di scioglimento del permafrost e di aumento del livello dei mari sono ormai considerati «virtualmente certi», anche nel caso di una drastica riduzione delle emissioni.

Dietro il tono scientifico “oggettivo” del rapporto, l’IPCC sta chiaramente lanciando un grido di allarme. L’inquietudine degli esperti è palpabile. Essa è particolarmente evidente nel fatto che la sintesi per i decisori politici contiene una sezione sull’aumento del rischio di «cambiamenti bruschi o irreversibili» dopo il 2100. Ad esempio, si legge che «la soglia per la scomparsa della calotta glaciale della Groenlandia, che comporterà un aumento del livello del mare fino a 7 m nel giro di un millennio o più, è superiore a circa 1° C ma inferiore a 4°C di riscaldamento globale». Quindi, nel lungo termine, limitare l’aumento della temperatura a 2°C non elimina completamente il rischio di uno sconvolgimento estremamente profondo dell’ “ecosistema terrestre”. [2]


I media ripetono regolarmente informazioni che danno la responsabilità al metano prodotto dai ruminanti, o alle emissioni di CO2 causate dalla deforestazione. C’è qualcosa di vero in queste affermazioni, ma il rapporto dell’IPCC mette le cose in chiaro: «Le emissioni di CO2 prodotte dalla combustione di combustibili fossili e dai processi industriali hanno contribuito per il 78% al totale delle emissioni di gas serra dal 1970 al 2010, con un contributo percentualmente simile dal 2000 al 2010». Un grafico che mostra la responsabilità dei diversi gas tra il 1970 e il 2010 conferma che il problema principale è l’uso di carbone, petrolio e gas naturale come fonti di energia (vedi sotto, fonte IPCC).

Questa constatazione è determinante quando si tratta di elaborare delle soluzioni. Gli esperti dell’IPCC hanno sintetizzato la letteratura esistente sui modelli di “mitigazione” del riscaldamento globale. Essi distinguono tra otto scenari, a seconda del livello a cui la concentrazione atmosferica dei gas serra si sarà stabilizzata da qui alla fine del secolo. Per ogni scenario, una tabella mostra la riduzione delle emissioni da realizzare da qui al 2050 e da qui al 2100, e la probabilità che l’aumento della temperatura rispetto al periodo preindustriale resti sotto un certo livello (1,5°, 2°, 3°, 4°C) nel corso di questo secolo. In ogni scenario, la riduzione delle emissioni di CO2 proveniente dalla combustione di combustibili fossili ha un ruolo centrale.

Gli scenari: tra incubo e rivoluzione

Lo scenario meno restrittivo è quello in cui le emissioni continuano ad aumentare circa al ritmo attuale. In questo caso, la probabilità di superare un aumento di 4°C, è «maggiore della probabilità inversa». L’elenco delle catastrofi sociali ed ecologiche che ne conseguono è lunghissimo e da incubo. Per quanto riguarda la salute umana, per esempio, il rapporto prevede che «la combinazione di alta temperatura e umidità in alcune regioni ed in certi momenti dell’anno comprometterà le normali attività umane, comprese le colture alimentari e il lavoro all’aperto». La produttività agricola e le aree di pesca saranno colpite molto duramente. Il declino della biodiversità si accelererà.

All’altro estremo delle possibilità, un numero molto ridotto di studi considera la stabilizzazione della concentrazione atmosferica a 430ppm di CO2eq [3]. Ma questo è il livello attuale, e lo sforzo da realizzare all’interno di questo scenario implica restrizioni estreme, persino colossali. Nel 2050, le emissioni globali dovranno essere ridotte del 70-95% (in rapporto al livello del 2010); entro il 2100, dovranno essere ridotte del 110-120% [4]. Il riepilogo per i decisori politici non dice altro.

Questo scenario implica un riorientamento rivoluzionario di tutti gli ambiti della vita sociale. Tuttavia è l’unico che offrirà la possibilità di evitare il surriscaldamento globale oltre 1,5°C, l’obiettivo che molti scienziati (tra cui il presidente dell’IPCC!) considerano necessario.

In pratica, la relazione si concentra su due scenari: la stabilizzazione a 450ppm e quella a 500ppm. In questi due casi, si stima la possibilità di raggiungere un massimo di 2°C come obiettivo “probabile” (probabilità superiore al 66%), “più probabile che improbabile”, o “nella stessa misura probabile ed improbabile”. Rimanere al di sotto degli 1,5°C di aumento non è pensabile se non nel quadro di una stabilizzazione a 450 ppm, ma le probabilità sono scarse («più improbabile che probabile»).

Una difficoltà gigantesca

Questi scenari consentono un (piccolo) margine per aumentare ancora un po’ la quantità di gas serra immessi nell’atmosfera (dunque per bruciare ancora per un certo periodo di tempo una certa quantità di combustibili fossili). Tuttavia essi sono estremamente restrittivi. Ad esempio, nel caso di una stabilizzazione a 450 ppm, le emissioni mondiali dovranno diminuire del 42-57% entro il 2050 e del 78-118% entro il 2100 (rispetto al 2010). Da qui al 2050, la quantità di energia prodotta con intensità di carbonio nulla (“zero carbon”) o molto bassa (“low carbon”), dovrà aumentare del 90% su scala mondiale [5]. Il fatto che il 78% delle emissioni sono dovute alla CO2 proveniente dalla combustione di combustibili fossili, e che questa combustione rappresenta l’80% dell’energia utilizzata dall’umanità, mostra la grandezza della difficoltà.

C’è, naturalmente, una dimensione tecnica di questa difficoltà, che non voglio prendere in considerazione qui. Ci sono, soprattutto, le dimensioni sociali e politiche. Il rapporto insiste sulla giusta ripartizione degli sforzi tra i paesi (in base alle loro responsabilità storiche), sulla condivisione delle tecnologie, sulla necessità di una collaborazione internazionale, l’importanza di combinare la lotta contro il riscaldamento globale e la lotta contro la povertà, sugli imperativi etici di questa combinazione e sulle sfide per l’avvenire del genere umano... Si tratta di questioni cruciali che potenzialmente sfidano la logica del neoliberismo. Mai un rapporto dell’IPCC aveva mandato un messaggio del genere con tanta forza.

‘Svalutare gli attivi’

C’è un’altra difficoltà di ordine sociale su cui la sintesi per i decisori politici dice molto poco, ma che ha un peso decisivo. Ad un certo punto si legge: «La politica di mitigazione potrebbe svalutare gli attivi nell’energia fossile e ridurre le entrate per gli esportatori di combustibili fossili […]. La maggior parte degli scenari di mitigazione implica una diminuzione delle entrate per i maggiori esportatori di carbone e petrolio».

Queste due piccole frasi si riferiscono ad un problema cruciale: per non superare i 2°C di riscaldamento, l’80% delle riserve conosciute di combustibili fossili dovrebbe rimanere sotto terra e non essere mai sfruttato. Ma queste riserve fanno parte degli attivi delle compagnie petrolifere e (delle famiglie dominanti) degli Stati produttori. Dunque è un eufemismo scrivere che «la politica di mitigazione potrebbe svalutare gli attivi nell’energia fossile». In realtà, una mitigazione degna di tale nome implica la distruzione pura e semplice della maggior parte di quel capitale.

I padroni del settore delle energie fossili sono ben consapevoli del pericolo. È per questo che hanno massicciamente finanziato i “negazionisti climatici” e così facendo hanno guadagnato un po’ di tempo. Ma nel lungo periodo, è improbabile che le menzogne di questi ciarlatani possano ostacolare le inquietanti prove scientifiche presentate dall’IPCC. Questo è il motivo per cui l’accento viene sempre più posto sulla ricerca di una politica di mitigazione compatibile - réalisme” oblige - con il massimo mantenimento dei profitti dei padroni di carbone, petrolio e gas naturale.

Sfidare il capitale

La cattura e sequestro geologico della CO2 (CCS) occupa qui un posto strategico, e il rapporto dell’IPCC le attribuisce una grande importanza. Conviene saperlo per non farsi ingannare dai media quando cercano di convogliare la nostra attenzione sulla “buona notizia” che restare sotto ai 2°C ridurrà la crescita solo dello 0,06% annuo. Tale cifra è menzionata nel rapporto, ma questo dice anche che essa è stata calcolata ipotizzando un massiccio utilizzo del processo di cattura e sequestro di CO2. Secondo il rapporto, da qui al 2030, la transizione energetica richiederà investimenti di diverse centinaia di miliardi di dollari l’anno, a livello globale. Una bella somma... ma senza CCS, il costo della transizione aumenterebbe del 138%, addirittura del 200%.

Tuttavia, il ruolo dei combustibili fossili è solo un aspetto di una questione più ampia: è la logica di accumulazione ad essere in gioco. È diventato un luogo comune dire che la crescita infinita non è possibile in un mondo finito. Per ridurre drasticamente le emissioni da qui al 2050, dal momento che queste emissioni continueranno per tutta la durata della conversione energetica, è necessario ridurre il consumo finale di energia, e bisogna farlo in misura tale da rimettere in discussione la logica del “sempre più” energia. In breve: bisogna ridurre la produzione materiale e il trasporto dei beni.

Ciò è possibile senza danneggiare la qualità della vita (al contrario, migliorandola) se aboliamo le produzioni inutili e dannose, l’obsolescenza programmata, la quantità ridicola di trasporto richiesta dalla globalizzazione, ecc. È possibile farlo senza distruggere posti di lavoro (al contrario, favorendone la creazione) se condivideremo il lavoro, le ricchezze, i saperi e le tecnologie... Ma ciascuna di queste ipotesi porta invariabilmente alla stessa conclusione: bisogna sfidare il capitale.

La maggior parte dei ricercatori che creano modelli di mitigazione non tengono conto di questa possibilità. Per loro l’accumulazione fa parte del paesaggio, è una legge di natura. Quindi, oltre alla CCS, la maggior parte di loro include tra le proprie strategie l’estensione del nucleare e la massiccia combustione di biomassa. Si tratta, per così dire, di “toppe” sui danni prodotti dall’accumulazione. La sintesi per i decisori politici cita alcuni rischi di tali tecnologie (in particolare la concorrenza con la produzione alimentare, nel caso della biomassa), ma l’IPCC non fa altro che raccogliere gli studi esistenti, ed è quindi dipendente da essi.

Molto più che una lotta ecologica

Alla fine del 2015, il vertice di Parigi (COP21) dovrebbe produrre un accordo sul clima. Il rapporto dell’IPCC metterà ciascuno davanti alle proprie le responsabilità. Ci aspettiamo che esso avrà un peso determinante. Ma i governi non prenderanno in considerazione l’ipotesi anticapitalista. Mentre i contorni della catastrofe diventano sempre più certi, più chiari e più spaventosi che mai, mentre centinaia di milioni di poveri sono già le prime vittime del riscaldamento globale... questi governi riusciranno, nella migliore delle ipotesi, ad escogitare alle nostre spalle un accordo sul clima che sarà insufficiente sul piano ecologico, ingiusto sul piano sociale e pericoloso sul piano tecnologico. Le recenti decisioni dell’Unione europea mostrano chiaramente questo pericolo.

La possibilità di un’altra strada dipende esclusivamente dalla mobilitazione sociale. Poiché si tratta di molto più che una questione ecologica: è una sfida umana fondamentale, una scelta di società e civiltà che condizionerà tutte le altre. Il nostro avversario è potente. Lo può far arretrare solo l’azione collettiva di tutte e tutti le/gli oppresse/i e le/gli sfruttate/i. D’ora in poi, dobbiamo usare il grido d’allarme dell’IPCC per costruire un fronte il più ampio possibile in favore di un’alternativa che sia allo stesso tempo sociale ed ecologica. In una parola: ecosocialista.

18 novembre 2014

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