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01/11/2014

Tempi bigi sul Tamigi. Finita la piccola età dell’oro l’Italia ritorna paese di emigranti

Riceviamo e pubblichiamo:

A Londra ho soggiornato in uno squallido ed economico ostello nelle vicinanze di Notting Hill, una rimanenza di quando il quartiere non era ancora una zona dove comprano casa Beckham e le  Spice Girls, ma un lurido sobborgo pieno di negri e puttane e ci andavano ad alloggiare gli hippies.

Questo ostello, come altri in zona è pieno di italiani, e non ragazzi che viaggiano in cerca di avventure nella wonderful London, ma un branco di disperati senz’arte né parte, a volte pregiudicati, che in mancanza di prospettive di lavoro, guadagno e vita al loro paese sono emigrati dove hanno sentito dire che il lavoro c’è e le opportunità sono migliori.

L’Inghilterra è diventato il maggior paese di emigrazione per gli italiani, oltre mezzo milione vivono e lavorano nelle isole britanniche.

Questi nuovi emigranti vivono in condizioni di discreta precarietà: lavorano per lo più come lavapiatti, aiuto cuochi e camerieri nei ristoranti londinesi, cambiando spesso posto di lavoro e sono pagati molto poco in rapporto al costo della vita locale. Sono costretti a vivere in ostelli più economici degli appartamenti, dentro camerate miste da otto o più persone in cui c’è appena il posto per il letto e lo zaino, non hai la sicurezza degli oggetti personali né della tua persona: ho sentito storie di gente cui hanno rubato anche i pantaloni e visto uomini guardare la televisione col coltello in mano, quando apparivano determinati soggetti; le donne, per ovvi motivi, vivono una situazione ancora peggiore.

Per completare il quadro gli emigranti, appena si permettono qualche spesa in più, rimangono senza soldi e sono costretti a ricorrere ad espedienti o dormire alcuni giorni nel parco aspettando l’arrivo della paga settimanale. Insomma, proprio una situazione da immigrati, di quelli messi male anche, che, per restare in tema britannico, ricorda la vita degli slums descritta da Dickens nella Londra di fine Ottocento.

Lo stesso genere di storie le ho sentite raccontare sugli italiani in Australia e in Germania: lavori mal pagati, condizioni abitative miserevoli e situazioni di vita squallide, con poca o nulla integrazione nella società locale; un quadretto cui fanno invidia le situazioni degli albanesi da noi.

L’Italia ritorna ad essere terra di emigranti. Dopo un periodo di relativo benessere e un forte calo delle partenze dal paese, con un picco negativo nel 2000, la crisi economica spinge una vera e propria emigrazione di massa: nel 2014 per la prima volta dopo quasi 40 anni, dal ‘73, si registra un saldo negativo di migrazioni (cioè gli emigranti dal paese sono più degli immigrati) secondo i dati AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) che stimano più di 100.000 partenze durante l’anno ancora in corso. Dati che sono sottostimati quasi della metà in quanto solo coloro che comunicano alle autorità il cambio di residenza vengono inseriti nelle cifre ufficiali e dei 4,5 milioni di italiani che vivono fuori dal paese solo 2,4 sono registrati all’AIRE.

La differenza che salta agli occhi rispetto al periodo delle grandi emigrazioni della prima metà del Novecento, quando i nostri connazionali partivano verso paesi a capitalismo avanzato come Belgio, Germania o Francia e nazioni di forte sviluppo capitalista come gli Stati Uniti e l’Argentina, è che adesso le migrazioni vanno in tutti i sensi: mentre gli italiani partono dal paese per trovare un lavoro qualunque, purché sia un lavoro, decine di migliaia di più o meno affamati sbarcano quotidianamente sulle coste della penisola inseguendo il miraggio del benessere occidentale (nonostante la forte diminuzione di permessi di lavoro dati dallo stato italiano negli ultimi anni, dimezzati dal 2011 al 2012, il lavoro immigrato è ancora richiesto nel paese ma il bisogno viene colmato dai lavoratori licenziati dalle aziende che chiudono).

Il capitalismo globalizzato sposta la produzione da una parte all’altra del pianeta in cerca di mano d’opera a basso prezzo, per poi farla tornare indietro quando il costo del lavoro ritorna profittevole da una parte ed inizia ad essere più elevato dall’altra, nel perenne tentativo di evitare l’abbassamento del saggio di profitto. Contemporaneamente sposta le masse di lavoratori agitandogli davanti al naso la carota del miglioramento delle condizioni economiche per poi fargli sentire il bastone dello sfruttamento e dello sradicamento culturale. Infatti il lavoratore immigrato è quanto di più sfruttabile si possa trovare al mondo: avulso dal tessuto sociale locale non ha contatti con le organizzazioni dei lavoratori, parla poco o niente la lingua del paese di destinazione, non ne conosce le regolamentazioni sul lavoro e, senza famiglia o amici che gli coprano le spalle, è più ricattabile e costretto ad accettare qualunque briciola gli venga offerta. La retorica anti immigrati dei partiti conservatori, che solitamente difendono con maggiore accanimento gli interessi del capitale, è tutto fumo negli occhi con una doppia utilità: raccogliere i voti della parte più gretta e ignorante dell’elettorato giocando sulle sue paure per il diverso e l’ignoto e fomentare nel contempo l’odio verso gli immigrati in modo da renderne ancora più difficile l’integrazione nella società così da poterli sfruttare di più e più a lungo.

La narrazione del mondo globalizzato in cui le persone sono libere di andare dove più gli piaccia inseguendo i propri desideri (indotti) e le proprie fantasie è funzionale ancora una volta alle esigenze di mercato per portare mano d’opera dove ce ne sia bisogno e portare le imprese dove ci sia mano d’opera (a basso costo).

Il capitale, come una novella chiesa, ama i poveri e gli immigrati e tra loro diffonde il suo verbo: lavorate, fatevi sfruttare, che guadagnerete il paradiso terrestre del benessere e del consumo.

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