Riceviamo e pubblichiamo:
A Londra ho soggiornato in uno squallido
ed economico ostello nelle vicinanze di Notting Hill, una rimanenza di
quando il quartiere non era ancora una zona dove comprano casa Beckham e
le Spice Girls, ma un lurido sobborgo pieno di negri e puttane e ci
andavano ad alloggiare gli hippies.
Questo ostello, come altri in zona è
pieno di italiani, e non ragazzi che viaggiano in cerca di avventure
nella wonderful London, ma un branco di disperati senz’arte né parte, a
volte pregiudicati, che in mancanza di prospettive di lavoro, guadagno e
vita al loro paese sono emigrati dove hanno sentito dire che il lavoro
c’è e le opportunità sono migliori.
L’Inghilterra è diventato il maggior
paese di emigrazione per gli italiani, oltre mezzo milione vivono e
lavorano nelle isole britanniche.
Questi nuovi emigranti vivono in
condizioni di discreta precarietà: lavorano per lo più come lavapiatti,
aiuto cuochi e camerieri nei ristoranti londinesi, cambiando spesso
posto di lavoro e sono pagati molto poco in rapporto al costo della vita
locale. Sono costretti a vivere in ostelli più economici degli
appartamenti, dentro camerate miste da otto o più persone in cui c’è
appena il posto per il letto e lo zaino, non hai la sicurezza degli
oggetti personali né della tua persona: ho sentito storie di gente cui
hanno rubato anche i pantaloni e visto uomini guardare la televisione
col coltello in mano, quando apparivano determinati soggetti; le donne,
per ovvi motivi, vivono una situazione ancora peggiore.
Per completare il quadro gli emigranti,
appena si permettono qualche spesa in più, rimangono senza soldi e sono
costretti a ricorrere ad espedienti o dormire alcuni giorni nel parco
aspettando l’arrivo della paga settimanale. Insomma, proprio una
situazione da immigrati, di quelli messi male anche, che, per restare in
tema britannico, ricorda la vita degli slums descritta da Dickens nella
Londra di fine Ottocento.
Lo stesso genere di storie le ho sentite
raccontare sugli italiani in Australia e in Germania: lavori mal
pagati, condizioni abitative miserevoli e situazioni di vita squallide,
con poca o nulla integrazione nella società locale; un quadretto cui
fanno invidia le situazioni degli albanesi da noi.
L’Italia ritorna ad essere terra di emigranti.
Dopo un periodo di relativo benessere e un forte calo delle partenze
dal paese, con un picco negativo nel 2000, la crisi economica spinge una
vera e propria emigrazione di massa: nel 2014 per la prima
volta dopo quasi 40 anni, dal ‘73, si registra un saldo negativo di
migrazioni (cioè gli emigranti dal paese sono più degli immigrati)
secondo i dati AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) che stimano
più di 100.000 partenze durante l’anno ancora in corso. Dati
che sono sottostimati quasi della metà in quanto solo coloro che
comunicano alle autorità il cambio di residenza vengono inseriti nelle
cifre ufficiali e dei 4,5 milioni di italiani che vivono fuori dal paese
solo 2,4 sono registrati all’AIRE.
La differenza che salta agli occhi
rispetto al periodo delle grandi emigrazioni della prima metà del
Novecento, quando i nostri connazionali partivano verso paesi a
capitalismo avanzato come Belgio, Germania o Francia e nazioni di forte
sviluppo capitalista come gli Stati Uniti e l’Argentina, è che adesso le
migrazioni vanno in tutti i sensi: mentre gli italiani partono dal
paese per trovare un lavoro qualunque, purché sia un lavoro, decine di
migliaia di più o meno affamati sbarcano quotidianamente sulle coste
della penisola inseguendo il miraggio del benessere occidentale
(nonostante la forte diminuzione di permessi di lavoro dati dallo stato
italiano negli ultimi anni, dimezzati dal 2011 al 2012, il lavoro
immigrato è ancora richiesto nel paese ma il bisogno viene colmato dai
lavoratori licenziati dalle aziende che chiudono).
Il capitalismo globalizzato sposta la
produzione da una parte all’altra del pianeta in cerca di mano d’opera a
basso prezzo, per poi farla tornare indietro quando il costo del lavoro
ritorna profittevole da una parte ed inizia ad essere più elevato
dall’altra, nel perenne tentativo di evitare l’abbassamento del saggio
di profitto. Contemporaneamente sposta le masse di lavoratori
agitandogli davanti al naso la carota del miglioramento delle condizioni
economiche per poi fargli sentire il bastone dello sfruttamento e dello
sradicamento culturale. Infatti il lavoratore immigrato è quanto di più
sfruttabile si possa trovare al mondo: avulso dal tessuto sociale
locale non ha contatti con le organizzazioni dei lavoratori, parla poco o
niente la lingua del paese di destinazione, non ne conosce le
regolamentazioni sul lavoro e, senza famiglia o amici che gli coprano le
spalle, è più ricattabile e costretto ad accettare qualunque briciola
gli venga offerta. La retorica anti immigrati dei partiti conservatori,
che solitamente difendono con maggiore accanimento gli interessi del
capitale, è tutto fumo negli occhi con una doppia utilità: raccogliere i
voti della parte più gretta e ignorante dell’elettorato giocando sulle
sue paure per il diverso e l’ignoto e fomentare nel contempo l’odio
verso gli immigrati in modo da renderne ancora più difficile
l’integrazione nella società così da poterli sfruttare di più e più a
lungo.
La narrazione del mondo globalizzato in
cui le persone sono libere di andare dove più gli piaccia inseguendo i
propri desideri (indotti) e le proprie fantasie è funzionale ancora una
volta alle esigenze di mercato per portare mano d’opera dove ce ne sia
bisogno e portare le imprese dove ci sia mano d’opera (a basso costo).
Il capitale, come una novella
chiesa, ama i poveri e gli immigrati e tra loro diffonde il suo verbo:
lavorate, fatevi sfruttare, che guadagnerete il paradiso terrestre del
benessere e del consumo.
Sacrosanto.
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