di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Per l’industria bellica Usa la
guerra è ovviamente un affare. Il terzo conflitto in Iraq in poco più di
due decenni è uno dei più redditizi. Mentre l’amministrazione Obama
cercava di mascherare l’intervento prima con l’impellente necessità di
salvare la minoranza yazidi, poi con il sostegno a Baghdad e infine con
una nuova crociata anti-islamista, gli amministratori delegati delle
principali multinazionali della guerra accumulavano profitti.
In un’analisi pubblicata da TomDispach, l’autore Peter Van Buren fa i conti in tasca all’industria militare Usa. Dietro
stanno gli accordi di vendita siglati dal Congresso con il governo
iracheno, su pressione del Pentagono, responsabile del coordinamento tra
i contractor privati statunitensi e gli acquirenti stranieri. A monte
sta la legge Usa, per la quale «la vendita di articoli da difesa e
servizi a Stati stranieri viene finalizzata quando il presidente ritiene
che serva a rafforzare la sicurezza degli Usa e a promuovere la pace
globale».
Ovvero, vendete armi se serve a proteggere il cittadino Usa. Che, in
molti casi, paga per quelle armi: nel caso di paesi impossibilitati a
spendere cifre astronomiche per difendere i propri confini dai nemici
dell’Occidente, è Washington ad aprire i cordoni della borsa. Ad
oggi gli Usa spendono in media 7,5 milioni di dollari al giorno nella
crociata anti-Isis. Denaro che finisce poi nelle casse dell’industria
militare, giovando anche all’amministrazione pubblica.
La lista dei contractor beneficiari è lunga: la General Atomics per i
droni Predator, la Northrop Grumman per i droni Global Hawk, la
AeroVironment per i minuscoli droni di sorveglianza Nano Hummingbird, la
DigitalGlobe per i satellite, la Lockhed Martin per i missili Hellfire,
la Raytheon per i missili a lungo raggio Tomahawk. Dopo i primi
raid contro postazioni islamiste in Iraq e le dichiarazioni del
presidente Obama di un conflitto a lungo termine (che fece sfumare il
taglio di 500 miliardi di dollari in 10 anni al budget del Pentagono) i
prezzi delle armi delle compagnie private sono lievitati, insieme alle
quotazioni in borsa.
Prendiamo i contratti siglati con Baghdad. Nelle prime
settimane di offensiva i miliziani di al-Baghdadi hanno occupato con
estrema facilità basi militari e magazzini dell’esercito iracheno,
impossessandosi di enormi quantitativi di armi made in Usa. Con
l’esercito iracheno allo sbando e a secco, per i venditori di armi si è
aperto un ventaglio di possibilità: c’era da rimettere in sesto una
forza militare saccheggiata. E da bombardare dall’alto le stesse armi
Usa oggi in mano all’Isis.
A soli tre giorni dai primi raid in Siria, invece, il
Pentagono ha siglato un contratto da 251 milioni di dollari con la
Raytheon per l’acquisto di missili Tomahawk. Al momento sul tavolo del
Congresso è in attesa di approvazione una lista della spesa da 3
miliardi di dollari: 175 carri armati Abrams, 15 veicoli Hercules,
55mila munizioni. Pochi mesi prima, a luglio, la General Dynamics aveva
siglato un contratto da 65,3 milioni di dollari per il programma Abrams
iracheno; ad ottobre è stata data luce verde alla vendita di munizioni
per i carri armati iracheni (600 milioni), veicoli Humvees (579
milioni), camion (600 milioni) e missili Hellfire (700 milioni).
A far lievitare i profitti c’è poi l’addestramento: sono le stesse
compagnie private a insegnare ai soldati americani e iracheni a
utilizzare i nuovi sistemi. Un esempio: nel contratto per la vendita di
carri armati, una clausola prevede che «5 rappresentati del governo Usa e
100 rappresentanti del contractor privato raggiungano l’Iraq per un
periodo massimo di 5 mesi per consegnare il materiale, verificarne la
funzionalità e addestrare».
Un pacchetto da far girare la testa: alla fine del 2014 il
Congresso Usa ha approvato una legge di spesa che prevede l’investimento
di 1,2 miliardi di dollari in equipaggiamento e addestramento futuri
dell’esercito iracheno, altri 500 milioni saranno diretti ad addestrare
l’Esercito Libero Siriano anti-Assad tra Turchia, Giordania e Arabia
Saudita.
La disintegrazione dell’Iraq, la modifica irreversibile dei confini
suoi e della Siria, la destabilizzazione del Medio Oriente garantiranno
gli affari dei privati Usa per anni. La catastrofica strategia delle
precedenti amministrazioni ha permesso la nascita dei gruppi estremisti
che oggi sognano il califfato e la rimappatura della regione. Come dice
bene Van Burke, «ogni errore di Washington è una manna per le vendite
future di armi».
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