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12/05/2015

Libia - La guerra civile, l'Europa e la questione migranti

Carcasse di barconi vicino al porto di Zuwara, tra i principali luoghi di azione per i trafficanti Photograph: Mahmud Turkia/AFP/Getty Images
di Francesca La Bella

Scrivere di Libia non è mai semplice. Da un lato le dinamiche interne e la perdurante guerra civile non sono di facile comprensione anche a causa dei continui cambiamenti di fronte dei diversi attori. Dall’altro gli interessi internazionali sono tanto forti da sovrapporsi alla questione interna e, in alcuni casi, da relegare quest’ultima in secondo piano. Il dibattito internazionale di questi ultimi giorni sulla questione libica è un ottimo esempio di questa dinamica. Cercando informazioni sulla situazione interna al Paese ci si imbatte quasi esclusivamente in aggiornamenti di politica internazionale e in prese di posizione di politici europei e non solo.

E’ di questa mattina l’annuncio del Governo turco secondo il quale una nave da cargo turca sarebbe stata bombardata domenica dalle coste libiche in acque internazionali mentre si avvicinava al porto di Tobruk. Secondo fonti turche il terzo ufficiale sarebbe morto e altri membri dell’equipaggio sarebbero stati feriti nell’attacco. Poche ore prima si era diffusa la notizia della messa sotto accusa negli Stati Uniti dell’ex Segretario di Stato Hilary Clinton per la guerra in Libia del 2011. Secondo i detrattori della Clinton, l’attacco contro il Paese nord-africano avrebbe generato il caos nel Paese, rendendo quest’ultimo porto franco per trafficanti di uomini e di merci e Jihadisti. In questi giorni, inoltre, l’Europa tutta è impegnata nel dibattito sui flussi di migranti provenienti dalla Libia e sulla suddivisione degli stessi in tutti i Paesi dell’Unione. Se a questo aggiungiamo che è in programma per il 18 maggio a Il Cairo un vertice straordinario dei Paesi arabi aperto anche a Italia e Francia nel quale verrà discusso un possibile intervento in Libia dei Paesi dell’area con il sostegno logistico dei due Paesi europei, appare chiara la centralità del Paese per gli equilibri locali ed internazionali.

In quest’ottica rientra l’azione dell’Alto rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini, che oggi discuterà in sede ONU la possibile missione in acque libiche tesa a fermare i flussi illegali di migranti verso l’Europa e, se possibile, distruggere i barconi prima che lascino i porti libici come previsto dalla nuova Agenda sull’immigrazione della Commissione Europea. Secondo la bozza di risoluzione che dovrebbe andare in votazione questo mercoledì, gli Stati membri dell’Unione Europea dovrebbero avviare delle politiche condivise e di ampio respiro che consentano una gestione coordinata dei flussi migratori: sistema forte e comune di asilo; nuova politica europea a favore della migrazione legale; lotta alla migrazione illegale ed alla tratta di esseri umani; rafforzamento delle frontiere esterne dell’Unione europea. Il focus sulla Libia in queste previsioni è centrale. A causa della guerra civile interna, della mancanza di un Governo di unità nazionale e di un sistema di tutela della popolazione civile nazionale ed immigrata, la Libia è, infatti, porto di partenza principale delle carrette del mare che solcano il Mediterraneo.

Il tutto sembrerebbe inteso ad evitare le disgrazie del mare che hanno riempito le cronache delle scorse settimane, ma c’è da chiedersi se questa possa essere una soluzione concreta per la Libia e per i migranti. Per quanto riguarda la situazione interna al Paese nord-africano, l’impatto di queste politiche probabilmente sarà nullo se non negativo. Buona parte di chi lascia il Paese è costituita da civili libici che scappano dalla guerra e che dovrebbero, per questo, vedersi riconoscere lo status di richiedenti asilo in Europa, condizione che non sempre è facile da dimostrare. Per molti di loro la prospettiva potrebbe essere quella di trovarsi intrappolati nel Paese o di dover cercare altre vie d’uscita via terra per riuscire a fuggire. Per quanto riguarda i migranti provenienti da altri Paesi africani, molti di loro scelgono la via libica per cercare di avvicinarsi all’Europa e, probabilmente continueranno a farlo rimanendo, però, blocati in una terra segnata dalla guerra civile diventando possibili ostaggi e vittime degli scontri tra le opposte fazioni o finendo nei centri di detenzione per immigrati illegali che già da molti anni sono presenti in Libia. Le nuove politiche migratorie rischiano, dunque, di essere una soluzione solo per l’Europa che, in questa maniera, sposterebbe l’asse della risoluzione dalla questione dalla sponda nord alla sponda sud del Mediterraneo.

La Libia, però, per la situazione socio-politica in cui si trova oggi, non può essere considerato soggetto credibile per la garanzia dei diritti della popolazione civile. I due Governi, a Tripoli e a Tobruk, non hanno un controllo territoriale stabile e, per questo, risultano incapaci di amministrare le funzioni statali in senso ampio. L’esercito è diviso sia su base etnica sia su base regionale e, Khalifa Haftar, scelto da molti in occidente come principale interlocutore, non sembra essere abbastanza forte da imporre il proprio progetto di transizione. A questo si aggiunga la presenza di una miriade di piccoli gruppi che, nel corso del conflitto, hanno più volte cambiato campo d’azione e che, anche grazie a servizi di sicurezza per le imprese internazionali che in Libia hanno necessità di proteggere i propri stabilimenti, hanno, a fasi alterne, avuto buona disponibilità di armi e denaro. In questo vuoto di potere, le ramificazioni locali dello Stato Islamico hanno avuto la possibilità di prendere piede portando a termine numerosi attentati ed uccisioni anche a carico di migranti come quello avvenuto a carico di un migrante eritreo in precedenza espulso da Israele.

La condizione della Libia oggi è, dunque, quella di uno Stato fallito privo di prospettive per il futuro della sua popolazione, ma al centro del dibattito internazionale e d’area per il suo ruolo destabilizzante. Le azioni militari internazionali e le nuove politiche migratorie, entrambe prive di un focus sulle condizioni di vita della popolazione, difficilmente elimineranno le cause di questa situazione, nascondendone solo gli effetti all’opinione pubblica internazionale.

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