di Michele Giorgio – Il Manifesto
Tra tentazioni
autoritarie e un presunto desiderio di farsi da parte, l’80enne
presidente Abu Mazen intenderebbe confermare dopo l’estate due
appuntamenti che fino a qualche anno fa rappresentavano scadenze
fondamentali per la politica interna palestinese: a settembre
il Consiglio Nazionale Palestinese (Cnp) – il parlamento dei
palestinesi, nei Territori occupati e in esilio – e a novembre il
settimo Congresso del suo partito, Fatah. L’idea sarebbe quella di
far scorrere sangue fresco nelle arterie indurite
dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), del suo
Comitato esecutivo e anche in quelle di Fatah, per avviare nuove
politiche dopo quelle fallimentari degli ultimi 20 anni segnate da
negoziati inutili e intermittenti con Israele. Ma anche per
contrastare meglio la crescita del movimento islamico Hamas che già
controlla Gaza e che, secondo un’opinione diffusa, sarebbe il
partito di maggioranza anche in Cisgiordania diversamente da ciò
che indicano i sondaggi.
Abu Mazen negli ultimi anni, di pari passo all’impossibilità
di trovare qualche tipo di intesa con il premier israeliano
Netanyahu, ha irrigidito la sua politica interna, finendo per
assumere un atteggiamento autoritario verso avversari e
dissidenti. Dopo il conflitto con l’ex uomo forte di Fatah a
Gaza, Mohammed Dahlan, espulso da Fatah ma mai definitivamente
sconfitto (resta influente in Cisgiordania e a Gaza), Abu Mazen è andato allo scontro aperto con l’ex premier e un tempo suo alleato Salam Fayyad – accusato di progettare un “golpe” – e
più di recente ha rotto le relazioni con Yasser Abed Rabbo,
portavoce dell’Olp durante la prima Intifada e uno degli esponenti
palestinesi più noti negli anni successivi alla firma degli Accordi
di Oslo del 1993.
Abed Rabbo, accusato di essersi avvicinato a Mohammed Dahlan,
prima si è scoperto “dimissionato” dall’incarico di Segretario del
Comitato esecutivo dell’Olp e poi si è visto sequestrare i fondi
della sua ong, Palestinian Peace Coalition, fondata nel 2003 con
l’appoggio dell’allora presidente Yasser Arafat. Due mesi fa invece
furono confiscati i fondi (10 milioni di dollari) di ‘Future of
Palestine’, un’altra ong guidata da Salam Fayyad.
Da un lato l’atteggiamento di Abu Mazen gode dell’appoggio
della maggioranza di Fatah e di un numero significativo di
palestinesi, che non hanno mai avuto particolare stima e simpatia
per Abed Rabbo, Dahlan, Fayyad. Dall’altro serve a mascherare la crisi
della linea di Abu Mazen che per anni ha creduto di realizzare i
diritti dei palestinesi dando fiducia alla mediazione degli Stati
Uniti che non sono e mai saranno arbitri neutrali nel questione
israelo-palestinese. Ed è utile anche per rimuovere i
riflettori puntati sulla cooperazione di sicurezza tra
l’intelligence palestinese e quella israeliana, largamente
contestata nei Territori occupati. Senza dimenticare il
fallimento di Abu Mazen nella vicenda di Gaza. La riconciliazione
con Hamas non è mai avvenuta, anche per le gravi responsabilità
dello stesso presidente palestinese. La Striscia resta sotto il
pieno controllo del movimento islamico che da parte sua, deciso a
tenersi stretta la muniscola Gaza, cerca ora di trovare un accordo
separato con il “nemico israeliano”, a svantaggio dell’unità
territoriale palestinese.
Stando a quanto riferiva un paio di giorni fa Hani al Masri sul quotidiano palestinese al Ayyam, Abu
Mazen starebbe pensando di dimettersi nei prossimi mesi e potrebbe
annunciare una decisione definitiva durante la riunione allargata
di 300 rappresentanti politici che si terrà dopo la sessione del
Consiglio Nazionale Palestinese. «È diritto del
presidente pensare di passare il suo mandato – ha scritto Masri –
perché conservarlo significa sostenere la farsa del cosiddetto
processo di pace e la situazione attuale che sta ulteriormente
emarginando la causa palestinese e approfondendo l’occupazione e
gli insediamenti colonici. Il suo ritiro dalla carica dopo aver
rinnovato la legittimità palestinese, attraverso il Cnp e il
Congresso di Fatah, può essere la soluzione più appropriata».
Tuttavia è legittimo domandarsi, come fa un altro politologo
palestinese molto noto, Talal Akwal, che senso ha parlare di
rinnovamento delle istituzioni e di un nuovo presidente, quando
forze politiche di massa come Hamas sono fuori dall’Olp e non è
prevista una iniziativa democratica in cui i diritti di tutte le
parti siano riconosciuti. Manca un “contratto sociale”
fondato sui principi che mettono insieme tutti i palestinesi. Il
timore di tanti è che la convocazione frettolosa del Cnp serva in
realtà solo ad aprire la strada al successore di Abu Mazen, gradito a
Usa e Europa ma non riconosciuto da tutti i palestinesi, laici e
islamisti. Come Majed Faraj, il capo dell’intelligence dell’Anp indicato da più parti come colui che prenderà il posto di Abu Mazen.
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