La crisi d’identità di ciò che resta della sinistra appare ormai singolarmente complementare alla ”concezione terapeutica” della funzione di governo che ispira la rozza, ma efficace prassi politica di Renzi. La sinistra si sente “malata” e Renzi si comporta come il medico con il paziente.
Se il fascismo, per dirla con Gobetti, voleva “guarire gli Italiani dalla lotta politica”, utilizzando come medicina la “fede nella patria”, Renzi “cura” la crescente paura dell’imprevisto, con ripetute iniezioni di ottimismo. L’Italia fascista si resse su una cambiale firmata in bianco: il regime professava “nuove convinzioni” e lasciava credere che tanto bastasse a modificare la realtà dei fatti. Renzi promette ciò che sa di non poter mantenere, sposta in avanti l’ora dei conti e raccoglie il temporaneo trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo. Il fascismo ci condusse al disastro. Renzi rischia di ripetere l’impresa. Intanto, ieri come oggi, la fuga in avanti cancella conquiste e diritti in nome di una presunta “malattia” ed esaurisce la complessità delle dinamiche sociali in una “professione di convinzioni”.
Una sinistra attestata con orgoglio sulla barricata del suo sperimentato sistema di valori, più che balbettare formule teoriche, ricorderebbe l’efficacia della pratica, smonterebbe con l’analisi della realtà e la produzione di “fatti nuovi e alternativi” l’infantile fiducia ottimistica in un mondo semplificato secondo le misure di Renzi. Una sinistra convinta di se stessa tornerebbe a credere alla storia più che al progresso e costruirebbe la sua prima trincea negli Enti locali; provocando la crisi, dov’è decisiva, e ovunque affermando la superiorità di una sana “anarchia” contro le false dottrine democratiche di un centralismo sempre più autoritario, che sta smantellando la Costituzione.
Se qualcosa vuol “vivere a sinistra”, occorre che la gente di sinistra – molto più numerosa e attiva di quanto si creda – faccia vivere nelle realtà locali le mille articolazioni della prassi sociale e lotti per “prendere i Municipi”. Per farlo, occorre aprire lo scontro con la borghesia non con l’intento di “escludere”, ma con l’occhio attento alla dinamiche interne alle classi sociali, per intercettare e includere le sempre più ampie fasce proletarizzate. In questo senso ci sono due punti fermi dai quali partire: la storica “polemica contro gli italiani”, di Gobetti, in un antifascismo che era antiautoritarismo, e il diritto a reagire, individuato da Gramsci, quando l’eversione viene dall’alto, da ceti dominanti che mettono arbitrariamente mano alle regole che essi stessi si sono dati. Gobetti sostenne che l’antifascismo, prima di essere ideologia, è un istinto. Bene. E’ quell’istinto che deve indurci a difendere la Costituzione da un governo che la stravolge. Anche qui, non si tratta di violare la legge, ma di esercitare il sacrosanto diritto che Dossetti rivendicò nel dibattito dell’Assemblea Costituente.
Di fronte a quella metà del Paese che non vota perché non si sente rappresentata, ci sono due strade: le rigide formule ideologiche, che dividono, allontanano la gente e consentono a Renzi di trasformare l’astensione in un micidiale strumento di potere, o la “disobbedienza” come base programmatica di una sinistra che batta in breccia la menzogna sulle false “maturità democratiche” straniere. Prima tra tutte quella tedesca. Una sinistra che si affermi, partendo dalle lotte dei movimenti nelle realtà locali, costruendo un nuovo modello di governo, che passi per una “cessione di potere” delle Istituzioni a comitati di lotta e realtà di base. Una sinistra che attinga a piene mani dalla sua storia, come accade in Grecia: mutualismo, cooperazione, solidarietà, autogestione. Su questa base di rinata consapevolezza, si potranno poi raccogliere mille esperienze in una sola forza che si scagli contro i proconsoli dell’Europa delle banche.
Dal momento che il ”nuovo” è rappresentato da Renzi, soprattutto come “falsificazione narrativa”, meglio rifarsi a schemi e approcci “antichi”. Se è vero che Gobetti non aveva torto e “il fascismo fu soprattutto un’indicazione di infanzia”, non è meno vero che l’antifascismo, il seme da cui nasce la Repubblica, fu prova di maturità, fu il tarlo del cosiddetto “consenso”, consentì la Resistenza e costituì la prova storica che il fascismo non è stato “l’autobiografia della nazione” ma era e rimane il baluardo su cui s’infranse un regime. L’Italia di Renzi, che ripropone ed esaspera il concetto di nazione, che riporta all’ordine del giorno la guerra, che impone la collaborazione delle classi, cancella la partecipazione popolare alla lotta politica e asservisce la scuola, cancellando la libertà d’insegnamento, l’Italia di Renzi non è fascista nel senso storico, ma si prefigura come la manifestazione di un male genetico della democrazia borghese di fronte alle gravi crisi finanziarie: una feroce reazione liberal-liberista. A questo punto, se qualcosa vuol vivere a sinistra, occorre tornare almeno a due punti fermi ai quali ancorarsi: la cultura antifascista e i valori e le pratiche di quel socialismo che è stato storicamente la sola alternativa possibile alla barbarie.
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