Tutto finito, dunque? L'ordine regna a Berlino come ad Atene e Roma?
In realtà è il contrario, perché il potere dei diktat può piegare i governi, ma si è dimostrato incapace di creare consenso sociale. Oggi la “popolarità” dell'Unione Europea è caduta a precipizio in tutti i paesi.
Dobbiamo prendere il “laboratorio greco”, in cui viene condotto da oltre cinque anni un esperimento in corpore vili assolutamente violento, per quello che è, non per quello che ci piacerebbe.
I sei mesi di non trattativa tra le “istituzioni” e il governo Tsipras hanno dimostrato che non può esistere nessuna linea di politica economica al di fuori dei diktat della Troika. Anzi, più un governo nazionale è espressione dell'insofferenza popolare contro l'austerità, più duri, ultimativi, non trattabili diventano questi diktat. Agli occhi della governance europea, infatti, quei leader sono inaffidabili, non selezionati attraverso il processo di cooptazione messo in piedi nei think tank sovranazionali, verificato nella prova di governo di un singolo paese per conto terzi e quindi ammessi all'interno delle “istituzioni”.
Si è dimostrato dunque che un governo popolare è incompatibile con questa struttura, con queste politiche e con il contenuto dei trattati. Per non dire dell'Eurogruppo, consiglio decisionale intergovernativo privo di basi legali (non è previsto né regolato da alcun trattato) ma con poteri senza limiti.
L'abbattimento dei governi “dirazzanti” è dunque nel dna dell'Unione Europea, tanto quanto la rimozione di amministratori fuori linea in una provincia periferica. Un rapporto coloniale di fatto, ma per la prima volta esplicitato all'interno dell'Europa occidentale liberaldemocratica. Come ristabilimento di un rapporto gerarchico internazionale, non c'è una differenza sostanziale tra il golpe compiuto contro il governo Syriza e quello dei colonnelli del 1967. Non è scorso il sangue per le strade, formalmente esiste ancora una architettura democratica. Ma quest'ultima non ha alcun potere effettivo, se non quello di reprimere eventuali rimostranze popolari.
Tutta la costruzione europea si è dimostrata nei fatti un'architettura che esclude ogni possibilità di accesso ad istanze sociali diverse da quelle che deve servire: capitale multinazionale e sistema delle imprese. Più precisamente, ha preso forma visibile la nuova gerarchia che regola il capitalismo attuale:
“in cima gli intermediari (banche commerciali e d'affari), in mezzo i portatori di capitale (investitori istituzionali e risparmiatori) e al fondo i debitori, Stati o imprese che siano. […]Di fronte a questa realtà, il “riformismo di necessità” espresso dai movimenti nazionali contro l'austerità, che hanno soppiantato radicalmente l'ex socialdemocrazia europea in molti paesi, si è dimostrato semplicemente privo di conoscenza, ingenuo, pieno di illusioni volontaristiche che si sono presto infrante nel conflitto reale. Generando da un lato un nuovo ceto politico “compatibile” con l'Unione Europea, di fatto asservito e in via di cooptazione, dall'altra movimenti fatti ora più consapevoli ma anche, in una prima fase, socialmente molto più deboli e alla ricerca di una nuova prospettiva politico-strategica. Ovvero di cosa fare qui e ora sapendo che il contesto in cui ci si muove è decisamente diverso da quello supposto prima.
A fronte di un prodotto interno lordo mondiale di quasi 80 miliardi di dollari, sono 998 trilioni le attività finanziarie negoziate sui mercati, dieci volte di più rispetto al 1995. Poco meno di un terzo è costituito da azioni, obbligazioni, prestiti bancari, mentre circa 700 trilioni sono strumenti derivati. È questo comparto, decisamente autoreferenziale del mercato a determinare, in virtù della sua dimensione, i tassi di interesse.
Il profitto – e il potere – del sistema bancario viene dunque moltiplicato intermediando il capitale più di una volta, vincolandolo indissolubilmente alla tecnologia finanziaria e rendendoli, di fatto, non rimborsabile se non emettendo nuovi strumenti. Sono gli istituti di credito a determinare l'accesso al mercato dei governi, i quali stabiliscono a loro volta progressive restrizioni alle loro prerogative”
(Alessandro Pansa, La notte dell'Occidente, in Limes, n. 7 del 2015)
Il mantra “non c'erano alternative” ha un fondo di verità soltanto per quel pensiero politico che non si era mai posto davvero il problema dell'alternativa davanti alla nuova gerarchia dei poteri capitalistici, che non aveva del resto né studiato né intuito. La prospettiva “europeista riformista”, quel pasticcio di intenzioni senza fondamento concreto che si riassume in “vogliamo restare nella Ue e nell'euro, ma anche metter fine all'austerità”, si è dimostrata nei fatti una via senza uscita, un cul de sac al termine del quale – in effetti – ci si può soltanto arrendere o morire.
L'alternativa va studiata e pensata da subito, fatta vivere in pratiche di massa e passaggi politici anche molto cauti, vista la sproporzione di rapporti di forza prima illustrata. Ma è una prospettiva che ha fin dall'inizio per obiettivo la rottura di quella macchina chiamata Unione Europea. Ed è una prospettiva che l'esperienza di Tsipras non contemplava e non contempla. Intorno alla prospettiva della fuoriuscita dall'euro e dall'Unione Europea va costruito un movimento popolare vero, combattivo, coordinato a livello internazionale, capace di far arrivare fin dentro l'ultima vertenza sociale una idea generale di cambiamento.
Questa prospettiva, ci dice il laboratorio greco, diventa oggi la prima vera discriminante tra chi si pone davvero il problema della trasformazione e chi semplicemente cavalca il malessere sociale senza sapere dove guidarlo, giocando alla politica e/o al conflitto senza orizzonti.
Non c'è più spazio per i condottieri ciechi. Non è più tempo di affidamento a “leader carismatici”.
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