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27/08/2015

La Fed rinuncia al rialzo dei tassi, gli intermediari brindano

Anche il mitico Gianni Agnelli, di fronte alle dinamiche delle borse, si limitava a una sconcertante banalità: “salgono e scendono”. Come se non fossero leggi a regolarle, ma solo umori indecifrabili. E invece un fondamento concreto c'è e lo si vede con una certa chiarezza in questi giorni. A patto, ovviamente, di non farsi confondere dai tanti specialisti tutti interni alle logiche del capitale finanziario e quindi impossibilitati a guardarlo “da fuori”.

Oggi salgono tutte, dopo tonfi clamorosi che avevano fatto temere il peggio. Aveva aperto le danze ottimistiche Wall Street, ieri sera, dopo aver rifiutato per 24 ore di dar credito alla mossa di Pechino, che per la prima volta aveva deciso una sorta di quantitative easing, tra taglio dei tassi di interesse, riduzione delle riserve obbligatorie minime per le banche e acquisti di titoli sul mercato. Il Dow Jones aveva chiuso con quasi il 4% di guadagno, mentre il Nasdaq addirittura del 5.

Le piazze asiatiche hanno preso fiducia, nella notte, con Shangai a chiudere in rialzo del 5,3%, mentre Shenzhen, l'altra piazza “interna”, è avanzata del 3,3%. La più internazionale Hong Kong saliva del 2,22%, mentre Tokyo, che già il giorno prima aveva messo a segno un robusto rimbalzo, ha chiuso con un più tranquillo +1,08%.

Non potevano perciò esimersi dall'euforia anche le borse europee, con Francoforte a salire oltre il 3%, mentre Parigi, Londra, Madrid e Milano oscillavano tra il 2 e il 3 per cento. Persino la derelitta Atene andava in positivo, anche se solo dell'1%. Qualche effetto anche sul prezzo del petrolio, in leggera risalita con lo schiarirsi delle nubi annuncianti recessione globale. Il light crude Wti torna oltre i 40 dollari al barile, mentre il Brent del Mare del Nord si avvicina di nuovo ai 45.

La spinta decisiva è arrivata dalla conferenza stampa di William Dudley, presidente della Federal Reserve di New York,che ieri pomeriggio ha di fatto annunciato che la Federal Reserve centrale non procederà, nella prossima riunione di settembre, al previsto primo rialzo dei tassi di interesse. Sono sei anni che li tengono a zero, cosa mai vista nella storia del capitalismo, accompagnando i momenti peggiori della crisi con robustissime iniezioni di liquidità.

Parole chiare, non fumose: la necessità di un rialzo dei tassi «ora è meno convincente di quanto lo fosse qualche settimana fa». Vero è che ha anche spiegato che la Fed non ha cambiato totalmente programma, ma solo la tempistica. E soprattutto di escludere qualsiasi nuovo programma di quantitative easing: «siamo molto lontani» dal prendere in considerazione questa ipotesi.

Le spinte in questa direzione erano state però numerose ed autorevoli. Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti ed ex candidato alla guida della stessa Fed, aveva messo in guardia dai “pericoli” derivanti da un rialzo dei tassi. Anzi, secondo lui la Fed avrebbe dovuto pianificare un altro programma di acquisto di Treasury e bond, come fatto nel 2008, nel 2010 e dal settembre 2012 all'ottobre 2014. «Attualmente i problemi non sono eccesso di fiducia o investitori noncuranti dei rischi, quindi non c'è bisogno che la Fed crei shock per gli investitori».

Le parole di Dudley sono state comunque ben metabolizzate dai “mercati”: noi fermiamo l'aumento dei tassi, ma non vi forniremo nuova droga monetaria. A quella ci penseranno i cinesi, costretti a seguire la linea di Fed, Bce, Bank of Japan e quella d'Inghilterra.

Tutto a posto, dunque? Neanche per sogno. Sono anni che le dinamiche finanziarie e quelle dell'economia reale, ovvero la produzione di nuova ricchezza, appaiono quasi completamente separate. Almeno per quanto riguarda gli effetti positivi degli allentamenti monetari: la nuova liquidità emessa dalla banche centrali si trasferisce solo in minima parte alla “realtà” sotto forma di prestiti a imprese e famiglie. In primo luogo perché entrambe questi soggetti economici sono già molto indebitati. Ma soprattutto perché la bassa crescita e l'evidente dinamica deflazionista globale sconsiglia le imprese dall'effettuare nuovi massicci investimenti.

Al contrario, quando esplode una bolla speculativa finanziaria (come accaduto nei giorni scorsi nelle borse cinesi e asiatiche), gli effetti negativi si trasmettono in un attimo, sotto forma di blocco del credito, richieste di rientro dai debiti e fallimenti a catena.

La tranquillità cercata dai mercati finanziari (dagli intermediari di capitale, quelli che guadagnano dalle transazioni e dalla creazione di “prodotti finanziari” cartacei, come derivati, cds, ecc) è dunque semplice: sicurezza circa il mantenimento di tassi a zero e certezza di nuove immissioni di liquidità nel circuito. La Fed ha dovuto fornire la prima, Pechino la seconda.

Obiettivo raggiunto. Ma i problemi restano come prima. Che ci sia un ulteriore stampatore di moneta in grado di rifornire i tossicodipendenti da liquidità significa infatti una sola cosa: c'è più droga a disposizione, quindi la prossima crisi di astinenza sarà più forte.

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