di Michele Giorgio
«Gaza? Ci ritornerei subito. È stato un errore gravissimo quel ritiro. Era terra nostra». Meir aveva una villa e alcune serre nel moshav Ganor,
una delle 21 colonie ebraiche costruite da Israele nella Striscia di
Gaza, dopo averla occupata militarmente nel 1967, evacuate e demolite 10
anni fa assieme ad altri quattro insediamenti in Cisgiordania.
Ricorda con rabbia quando gli ordinarono di partire. «Qualcuno di noi
scelse di andare via prima dell’arrivo dei soldati e accettò i
risarcimenti statali, altri come me decisero di opporsi ma senza usare
la violenza. Alla fine i soldati ci cacciarono via tutti», racconta l’ex
colono ricordando quei giorni di agosto del 2005, in cui per la
felicità dei palestinesi lasciarono le loro abitazioni gli ultimi dei
circa 10 mila coloni ebrei insediati a Gaza, nel quadro del
ritiro unilaterale ordinato dallo scomparso premier israeliano Ariel
Sharon, passato alla storia come il “Piano di Disimpegno” (Tokhnit
HaHitnatkut, in ebraico).
Meir si è rifatto una vita aprendo un minimarket a Nitzan, scialba cittadina sulla costa mediterranea, tra Ashdod e Ashqelon, dove è finita gran parte degli ex coloni.
Prova ancora rancore. Per lui, come per tutti i coloni, Gaza, come la
Cisgiordania, appartiene solo al popolo ebraico. «Sharon era uno dei
nostri, perché prese quella decisione? – domanda Meir – Non siamo tenuti
a dare un centimento di terra agli arabi. Con noi (coloni) e l’esercito
dentro Gaza (il movimento islamico) Hamas non avrebbe mai preso il
potere. I palestinesi non potrebbero lanciare razzi». Di una
cosa è certo l’ex colono del moshav Ganor. «Forse non torneremo mai Gaza
ma quello di dieci anni fa è stato il primo ed ultimo ritiro da parti
di ‘Eretz Israel’, la nostra gente non accetterà che qualcosa di simile
avvenga anche in Yehuda e Shomron (Giudea e Samaria, i nomi biblici che i
coloni usano per indicare la Cisgiordania, ndr)».
Furono complesse, tra una scommessa diplomatica e necessità militari, le
considerazioni che fece Sharon tra il 2002 e il 6 giugno 2004, quando
il suo governo approvò il “Disimpegno”. La seconda Intifada contro
l’occupazione, cominciata nel 2000, era sempre intensa e Israele, che
nel 2002 aveva rioccupato le città autonome della Cisgiordania, si era
scoperto vulnerabile agli attacchi palestinesi. Sharon, che nel
frattempo aveva dato il via libera al progetto del “Muro di Separazione”
in Cisgiordania – ufficialmente per «fermare gli attentati» ma in
realtà l’idea era in discussione da anni con evidenti finalità politiche
e territoriali – decise il ritiro unilaterale da Gaza per
l’impossibilità di proteggere ulteriormente i coloni di fronte alle
accresciute capacità di attacco dei palestinesi. Tra i suoi
intenti c’era anche quello di dare un segnale “distensivo” al mondo che
aveva assistito, in verità quasi senza fiatare o protestare, alla
brutale repressione dell’Intifada. Scelse di non andare all’accordo con
Abu Mazen che, nel gennaio 2005, era stato eletto presidente dell’Anp al
posto dello scomparso Yasser Arafat. Raggiunse invece intese
con gli alleati americani e gli egiziani per ottenere il controllo
israeliano della costa di Gaza e dello spazio aereo palestinese,
riservandosi il “diritto” di intraprendere operazioni militari in caso
di “necessità” (tre guerre avvenute tra il 2008 e il 2014). Ai
palestinesi, liberi da coloni e soldati, sarebbe andato il controllo,
sul lato di Gaza, del valico di Rafah.
Il Piano di Disimpegno entrò nella fase finale prima dell’estate 2005
tra le proteste di una fetta consistente della popolazione israeliana,
che appoggiava il “no” dei coloni e di varie forze politiche al ritiro.
Raggiunse il culmine a metà agosto quando esercito e polizia
cominciarono ad evacuare con la forza chi si opponeva alle decisioni del
governo. Nelle sinagoge di Gush Qatif, a Neve Dekalim, a Kfar Darom e
in altre colonie i più coloni giovani, tra canti religiosi di dolore e
atti di resistenza passiva, si opposero ai soldati inviati dal governo. Le
case e tutti gli altri edifici (ad eccezione di una parte delle serre
agricole) non furono lasciati ai palestinesi, come risarcimento per
l’occupazione, ma vennero distrutti completamente. Furono evacuati, simbolicamente, anche quattro insediamenti ebraici nel nord della Cisgiordania.
Gli evacuati in buona parte finirono a Nitzan, gli altri a Neveh Yam,
Sorek, Ashdod, Ashkelon, Shomriah, Benkalim, Atzmona, in Galilea, in
vari piccoli centri abitati e, naturalmente, in varie colonie della
Cisgiordania.
Ogni famiglia di coloni ha ottenuto o avrebbe dovuto ottenere un
risarcimento di almeno 600mila shekel (150mila euro). Non ci sono cifre
aggiornate disponibili ma lo Stato di Israele, secondo fonti
ufficiose, avrebbe investito sui 10mila coloni evacuati da Gaza circa 12
miliardi di shekel (poco meno di tre miliardi di euro). «Quei
soldi a molti non sono bastati per comprarsi una casa, tanti non hanno
trovato un lavoro» si lamenta Inbar Dabush, 33 anni. Dieci anni fa,
Dabush viveva con i genitori ad Alei Sinai, un insediamento a nord di
Gaza, oggi ad Ashdod. Ora gestisce insieme ad altre donne il “Gush
Katif Heritage Center” di Nitzan, una sorta di “museo della memoria”
che raccoglie oggetti appartenuti alle colonie demolite 10 anni fa.
«I militari dicevano che eravamo in guerra ma noi avevamo buone
relazioni con gli arabi, molti lavoravano nei nostri campi, nelle nostre
serre», afferma Dabush ripetendo uno slogan diffuso tra gli ex coloni
su presunti ottimi rapporti con i palestinesi che vivevano intorno agli
insediamenti.
«Ottimi rapporti? Ma di cosa parlano, erano i classici rapporti
tra il padrone e il servo», replica Aziz Kahlout, un giornalista
palestinese. «La nostra vita era un inferno –
aggiunge –, segnata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’esercito
di occupazione per garantire la sicurezza dei coloni. Certo qualcuno di
noi aveva un lavoro (negli insediamenti, ndr) ma un milione e mezzo di
palestinesi viveva prigioniero di posti di blocco e barriere. Non
dimenticherò mai quando i coloni andarono via. Facemmo festa per giorni,
era la fine di un incubo». Un giudizio condiviso da tutti i
palestinesi di Gaza che nel 2005 recuperarono ampie porzioni di terra
destinandole a coltivazioni intensive, all’università al Aqsa, a campi
giochi per i bambini, uffici di associazioni locali ma anche a campi di
addestramento per i combattenti di Ezzedin al Qassam (Hamas) e di altre
formazioni armate. «Purtroppo se da un lato abbiamo realizzato il sogno di riprenderci la terra e di spostarci liberamente dentro la Striscia, dall’altro non abbiamo realizzato quello di viaggiare, di andare in altri paesi, siamo rimasti prigionieri»,
ci dice con amarezza Kahlout, descrivendoci la terribile condizione di
Gaza sotto blocco israeliano ed egiziano e teatro dopo il 2008 di tre
ampie offensive militari di Israele che hanno fatto migliaia di morti e
feriti e ridotto in macerie il territorio orientale della Striscia.
A distanza di 10 anni, con una opinione pubblica israeliana sempre più
orientata a destra e con al potere un governo apertamente schierato
dalla parte dei coloni, l’idea di un “Piano di Disimpegno 2″, ossia un
ritiro unilaterale da tutta o gran parte della Cisgiordania palestinese
occupata, appare a dir poco irrealistica. Netanyahu è riuscito a
superare a destra Sharon, per decenni l’israeliano più odiato dai
palestinesi anche per il suo coinvolgimento nel massacro di tremila
profughi nei campi di Sabra e Shatila in Libano nel 1982. «Un altro disimpegno non è impossibile ma assai improbabile», dice Gerald Steinberg
un analista israeliano vicino al governo «su questo ipotetico nuovo
piano pesa inoltre come un macigno il fallimento, dal punto di vista
israeliano, del ritiro da Gaza. Nella migliore delle ipotesi posso
immaginare l’evacuazione di qualche piccolo centro (colonia) isolato ma
non di tutti i cittadini israeliani (nelle colonie della Cisgiordania,
ndr)».
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento