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28/08/2015

La ripresa Usa, una tigre di carta? Prodromi di una nuova crisi globale

di Lorenzo Carrieri

Ultimamente sono molti gli articoli che parlano di una crescita dell’economia degli Stati Uniti, che avrebbe ripreso a viaggiare a ritmi costanti nel corso degli ultimi anni: negli ultimi trimestri si è addirittura sentito parlare di livelli di crescita compresi tra il 4% e il 5%.

Ma quanti di questi dati hanno un legame con l’economia reale, ergo con aumento occupazionale e produttività industriale, spesa in beni di consumo e redistribuzione della ricchezza?

A scandagliare e comparare i grafici sulla crescita si notano diverse cose interessanti.

Primo, stando ai dato del Bureau of Labor Statistics il 20% delle famiglie americane è composto da tutti disoccupati: come fa dunque il tasso di disoccupazione a stare all’attuale 5,5%?

L’errore della narrativa imperante qui sta nei filtri usati per calcolare i disoccupati: calcolare solo i disoccupati ufficiali, quelli che si mettono alla ricerca di un nuovo lavoro e/o quelli che lo cercano fino a 4 settimane dopo la perdita, trascurando coloro che sono inoccupati di lungo corso.

In tal modo la descrizione della composizione della forza lavoro viene sempre più a restringersi, evitando in tal modo di approfondire la dimensione reale della crisi sociale americana.

Altro cosa da sottolineare: l’aumento di posti di lavoro non considera l’aspetto contrattuale dello stesso rapporto: dai dati del BLS risulta che quasi il 90% delle nuove posizioni sono solo part-time (dai 3 ai 6 mesi di contratto, assunti per lo più nella ristorazione e nei fast-food, dove la busta paga settimanale è di 351$…), mentre quasi 250mila posizioni full-time sono andate perdute.

E’ così chiaro come il tasso di disoccupazione reale - persone che non partecipano al mercato del lavoro - sia vicino al 28%, con 92 milioni di americani disoccupati e/o sottoccupati praticamente invisibili ed esclusi dai calcoli di conteggio!

Seconda cosa interessante: il calcolo della crescita del PIL.

In primis il dato viene calcolato su un trimestre e moltiplicato per quattro (quattro sono infatti i trimestri in anno): così facendo una crescita dell’1% si trasforma in un fantomatico 4%, nell’ipotesi che nei seguenti trimestri la ripresa rimanga costante e uniforme.

Le innovazioni nella metodologia di calcolo del PIL (Sec 2010) non riguardano soltanto quanto detto sopra, ma anche la riclassificazione delle spese in ricerca e sviluppo e militari da “consumi intermedi” a “investimenti fissi”: cioè le spese vengono fatte passare per investimenti!

Così la spesa per la difesa, alzata l’asticella a quasi il 10%, ha spinto l’indice Dow Jones al massimo storico sopra quota 18mila punti, dando l’idea di una crescita che non c’è!

Da notare, ancora, sul calcolo della crescita del PIL è l’aumento della spesa in beni di largo consumo.

Qui entra in gioco un altro fattore erratico, dopo quello delle spese militari, che è la riforma sanitaria rinominata “Obamacare”.

Quasi l’80% della spesa in beni di largo consumo è infatti costituita dall’Obamacare, che impone per legge a tutti gli americani di assicurarsi contro le malattie e, ai meno abbienti, questa spesa viene sussidiata dal governo e quindi dalle tasse imposte ai cittadini.

In tal modo la spesa sanitaria viene ad essere calcolata nel novero degli investimenti ed influisce pesantemente sulla positività, fasulla, del PIL.

Altro aspetto interessante dell’Obamacare è il fatto che abbia spinto molte piccole e medie imprese a rinunciare ad assumere lavoratori a tempo pieno, dovendo i datori di lavoro sobbarcarsi l’onere previdenziale dell’assicurazione per i loro lavoratori.

Così, se da una parte la riforma sanitaria ha disincentivato le aziende ad assumere a tempo pieno (ecco il nome di “jobs killer” per l’Obamacare), dall’altra ha compensato con la creazione di posti di lavoro nella burocrazia federale - la maggior parte con contratti part-time come detto sopra - rinforzata proprio per gestire la riforma stessa: in tal modo, invece di aumentare il reddito dei contribuenti che dovrebbe a sua volta influire sul PIL è aumentato il reddito di governo e assicurazioni.

Terzo punto, strettamente collegato ai primi due.

Sì, è aumentata la spesa beni di largo consumo, ma quella in beni durevoli è scesa a picco, diminuita proprio perché non c’è stato nessun aumento dei redditi reali.

La classe media americana, simbolo del successo dell’american way of life, ha subito nel corso degli ultimi anni un processo di proletarizzazione che l’ha completamente spazzata via.

Un dato è pivotal: il tasso di proprietà immobiliare è sceso ai minimi dal 1995, solamente al 64%. Le tanto decantate politiche di inondazione di liquidità del Quantitative Easing non hanno minimamente facilitato l’accesso al credito delle famiglie medie americane, che scontano invece standard di credito più rigidi per ottenere mutui e sono dunque inclini a prendere casa in affitto (credit crunch).

Vogliamo poi parlare del debito d’onore degli studenti americani?

Secondo dati Bloomberg e FED di NY soltanto il 37% degli studenti è in pari coi pagamenti.

Per il resto, l’insolvenza sembra farla da padrone: stiamo parlando di un mercato da quasi 1,2 trilioni di dollari, il cui fallout potrebbe avere riverberi su buona parte dell’economia americana.

Oltre a quanto detto finora la stagnazione dei salari reali, e addirittura una loro discesa, pare un dato di fatto assodato: soltanto il 20% dei salari, secondo i dati del BLS, è cresciuto - quello dei dirigenti per capirci - mentre il restante 80% è addirittura crollato a livelli di crisi pre-LehmanBros.

Che dire poi del calo delle vendite al dettaglio, di quelle all’ingrosso e degli ordinativi industriali?

Vogliamo poi parlare del crollo dei prezzi delle materie prime industriali?

I prezzi delle commodities sono indicatore della crescita economica: risulta così incompatibile un calo del prezzo delle materie prime - petrolio (-47%), ferro (-49%), gas (-30%), rame (-15%) - con una vigorosa e reale domanda di prodotti industriali e di consumo.

Data questa situazione, ad uno sguardo d’insieme, il meccanismo perverso della crisi dei subprime del 2008 - bolla immobiliare, basso costo del denaro, meccanismo di cartolarizzazione - pare essere stato soltanto una parte della crisi, che oggi sta prendendo infatti nuovi aspetti.

L’attuale fase dell’economia americana, dai media mainstream denominata “ripresa”, è in realtà in una nuova macchina della bolla in potenza.

Le politiche di aumento della base monetaria, il Quantitative Easing della FED, non ha avuto effetti economici percepibili nell’economia reale.

Niente di nuovo sotto il sole verrebbe da dire, dato che il progressivo scollamento tra economia reale ed economia finanziaria è un dato di fatto dagli anni ’80, cioè da quando la FED, prima con Volcker, poi con Greenspan, ha tenacemente perseguito la deregolamentazione dei sistemi finanziari.

Da lì in avanti, con una serie di storiche misure - creazione nuovi strumenti gestione del rischio (hedge funds), abolizione norme sul commercio dei derivati, abolizione del Glass-Steagall Act, cartolarizzazione dei prestiti ipotecari subprime, offerta illimitata di moneta - la FED (il Capitale dunque) ha spostato il meccanismo di accumulazione dalla produzione reale, quella di fabbrica e/o manifatturiera, alla finanza: politica che persegue ancora oggi, nonostante le ripetute crisi a cui queste misure hanno portato (crisi del Dow Jones 1987, crisi delle valute emergenti 1994, bolla dot.com 2001, subprime 2008…).

Ma torniamo ad oggi: il peccato originale della FED e delle politiche di QE sta nella “droga” iniettata nel sistema dal 2008 in avanti.

Questo effluvio di liquidità non è finito negli investimenti produttivi né nella ripresa di un credito accessibile al consumo ma, anzi, è servito per una generale corsa al rendimento nel brevissimo termine verso collocazioni anti-crescita e anti-occupazione, ovverosia nell’acquisto/vendita di strumenti finanziari sintetici.

I soldi finiti a Wall Street infatti sono stati re-inseriti in un meccanismo del debito, dove l’intervento onnivoro delle banche centrali ha fatto man bassa dell’offerta di quest’ultimo e, in secondo luogo, ha spedito i prezzi nominali degli asset rischiosi e trattabili a livelli record.

Insomma Wall Street ha continuato nel suo peccato originale: soldi per la speculazione dei money managers e delle banche d’investimento volte al rendimento a breve termine, con buona pace di chi parla di ripresa e piena occupazione!

Ecco qui l’effetto collaterale del QE: prezzi di azioni e obbligazioni che non rispecchiano l'andamento dell’economia reale, schiacciamento dei tassi su mutui e finanziamenti aziendali che spinge investitori e famiglie ad aumentare propensione al rischio - indebitandosi a tasso zero - e conseguente ri-gonfiamento delle valutazioni degli asset.

E in tutto questo montare di debito la legge che dovrebbe garantire la separazione tra banche d’affari e quelle del deposito di risparmi, il Dodd-Frank Act, sembra un moscerino di fronte ad un elefante, come afferma lo stesso Wall Street Journal.

In questa situazione la prossima mossa spetta alla governatrice della FED Janet Yellen.

Che dovrebbe rialzare il costo del denaro - attualmente compreso nel range 0-0.25% - per dare credito, a livello interno e, soprattutto, globale, della robustezza della crescita dell’economia americana.

Infatti un aumento reale dell’attività economica dovrebbe comportare un rialzo nei tassi d’interessi perché, al netto di un aumento della domanda di credito per investimenti e beni di consumo durevoli, aumenterebbe anche il costo del denaro.

Ma la Yellen e la FED sono restii a farlo per diversi motivi.

In primo luogo un rialzo dei tassi a livelli “normali” potrebbe scatenare una reazione a catena per tutti coloro che si sono indebitati a tassi variabili nell’era del “tasso 0”: ergo la maggior parte delle società quotate in borsa, il cui accesso facile alla “droga monetaria”, se smettesse, potrebbe provocare conseguenze inimmaginabili (vedi fine solvibilità di imprese e famiglie verso il sistema bancario e conseguente ri-crollo di quest’ultimo).

Poi c’è l’ulteriore apprezzamento del dollaro, che ha recuperato più di 20 punti sull’euro da inizio 2015: in caso di innalzamento dei tassi, la rivalutazione del biglietto verde affaticherebbe ulteriormente l’export USA.

In ultimo, la posizione debitoria in dollari dei paesi emergenti. Molti infatti omettono di ricordare che nei “paesi in via di sviluppo” esiste una bolla inesplosa di 9mila miliardi di dollari: una rivalutazione del dollaro potrebbe determinare una situazione simile a quella della crisi del debito degli anni ’80, quando molti paesi, a fronte della politica di tassi alti della FED di Volcker, si ritrovarono insolventi.

Ancora una volta dunque i semi di una nuova crisi sembrano essere stati gettati.

Wall Street contro Main Street si dice negli Stati Uniti.

Come nel 2008, e forse anche peggio, la macchina propagandistica della bolla ha ripreso a camminare e il circuito finanziario della speculazione sta continuando a fagocitare qualsiasi cosa gli si presenti davanti: dati drogati sulla ripresa economica, uso sempre più spregiudicato di strumenti di ingegneria finanziaria per garantire profittabilità, dividendi e bonus ai supermanager di borsa, coinvolgimento di larghi strati della popolazione in livelli di benessere crescenti sempre più legato all’indebitamento (con conseguente insolvenza allo scoppio della bolla...).

Tutto sembra apparecchiato per una nuova crisi, ed aspettiamocela più globale di quella del 2008, nonostante il grido “too big to fail” risuoni ancora nelle stanze di Wall Street: il rialzo dei tassi della FED e la fine del QE, l’espansione di liquidità nell’Eurozona e il conseguente indebolimento dell’euro, il crollo della borsa cinese e il primo atto del Grexit sono solo gli antipasti...

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