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19/08/2015

Viva la "docente impudente". Mortificare gli insegnanti non è un progresso

Immagina di essere un ingegnere sposato con figli, sulla quarantina, che lavora da dieci o quindici anni con uno stipendio medio di 1200/1300 euro al mese, ma senza la garanzia del posto fisso. All’improvviso il tuo datore di lavoro ti fa una proposta: ti stabilizzo a patto che tu mi dia la disponibilità a trasferirti in qualsiasi altra regione con lo stesso stipendio e tutte le spese a tuo carico.

Che faresti? Accetteresti di buongrado, magari ringraziando? Oppure lotteresti per ottenere migliori condizioni?

In questo caso, ricorderesti al tuo capo il lungo periodo di precariato senza aumenti di stipendio, le problematiche familiari, le difficoltà economiche alle quali una scelta di questo tipo ti esporrebbe ecc.

Fuor di metafora, questo è sostanzialmente ciò che sta accadendo a decine di migliaia d’insegnanti laureati e abilitati, inclusi nelle graduatorie ad esaurimento, che per dieci o quindici anni hanno girovagato tra scuole e cattedre differenti, spesso a decine di chilometri da casa, in comuni diversi e distanti tra loro.

Dopo la sentenza della Corte europea del novembre scorso che ha condannato l’Italia per reiterazione illegittima di contratti a termine nella pubblica istruzione, il governo Renzi con la “Buona scuola” chiede a docenti con un’età media sopra i quarant’anni, una disponibilità totale alla mobilità sul territorio nazionale in cambio della tanto agognata stabilizzazione. A causa della diseguale distribuzione dei posti, tuttavia, molti insegnanti, residenti perlopiù al Sud e nelle Isole, dovranno forzatamente lasciare casa e famiglia per spostarsi al Nord, dove le cattedre sono più numerose.

Non solo, come se non bastasse, si prefigura per buona parte dei docenti stabilizzati un futuro all’insegna della mortificazione professionale, poiché, dopo i tagli di cattedre degli ultimi decenni, molti di loro dovranno essere “riciclati”, anche se non si sa ancora in quale modo. Si tratta di un demansionamento annunciato, con danni in termini di conoscenze e competenze per l’intero sistema scolastico.

Chi scrive, pur non provenendo dal Sud, ha alle spalle quindici anni di precariato e ha già sperimentato cosa significhi allontanarsi per qualche anno dalla famiglia per insegnare fuori dalla propria regione con uno stipendio che se ne va tutto per le spese d’affitto, le bollette e la benzina. Ma questa non è un’eccezione, è una situazione piuttosto ordinaria nel mondo dell’insegnamento.

Eppure dai post che leggo sui social e dai commenti postati su Repubblica alla lucidissima lettera di Marcella Raiola, si evince che i docenti non sono lavoratori come gli altri e non hanno diritto a rivendicare alcunché. Il distillato che esce da queste saccenti chiose è un insieme eterogeneo di qualunquismo reazionario del tipo “taci tu che un lavoro ce l’hai ed è anche troppo ben pagato” e di servilismo filo padronale. Si tratta di una visione che si può ben condensare nel principio per il quale non si lavora per vivere, ma si vive per lavorare, perciò è necessario adeguarsi a ogni esigenza del mondo del lavoro. Una concezione questa che vuole fare del lavoratore una pedina alla mercé delle forze impersonali del mercato, con buona pace della nostra Costituzione repubblicana che afferma il diritto al lavoro e a una vita dignitosa.

Di fronte a questa autentica disfatta delle coscienze, agevolata dalla crisi e amplificata a dismisura dai media mainstream, le voci dei dissidenti come Marcella Raiola che si oppongono al disegno di una scuola aziendalistica, autoritaria e clientelare e che hanno ancora il coraggio di affermare che il lavoratore è depositario di diritti, svolgono un ruolo cruciale per l’educazione dei giovani e per la tenuta dell’intero sistema democratico.

È con questa convinzione che grido in faccia ai reazionari lettori di Repubblica “Viva la docente impudente!”

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