La fama di giochi senza frontiere ha superato di gran lunga le barriere generazionali. Anche chi è nato qualche anno dopo l’ultima edizione dell’ultima serie di giochi senza frontiere è facile che sappia di cosa si sta parlando. Peter Gabriel gli dedicò una canzone, Games without frontiers, dove parlava di “gioco stupido” e di “guerra senza lacrime”, ma forse aveva bisogno, più che altro, di una sequenza di parole adatte ad un bel pezzo musicale e ad una voce leggendaria.
Giochi senza frontiere ha un ruolo di primo piano nella mitologia europea del dopoguerra. Una trasmissione televisiva, giocata su un ritmo allegro e vacanziero, dove una serie di cittadine europee gareggiavano a giochi sempre più buffi e diversi. Un po' strapaese, un po' formazione di un'audience continentale. Un po' occasione per le popolazioni di riconoscersi, appena pochi lustri dopo la guerra per le prime edizioni, cambiate e pienamente inserite nell’Europa del boom economico.
A lungo, gli italiani hanno scambiato ciò che chiamano “l’Europa” come se fosse giochi senza frontiere: la continuazione, sul piano politico-amministrativo, delle estati televisive di questo genere di concorso a premi. Poi, man mano che la somiglianza tra i personaggi dell’”Europa” e quelli di giochi senza frontiere ha creato solo senso dell’horror allora questo paese ha cominciato a capire dove è finito. Oggi, in un’altra stagione televisiva – dove i timori sui media sono talmente metabolizzati da far rientrare nella norma, praticamente nella disattenzione, l’omicidio in diretta di una giornalista – i flussi dei profughi sono seguiti con una distanza sociale, creata dalla telecamera, tale da far sembrare tutto un gioco. Già perché se le tv mandano in onda spot per raccogliere fondi per l’infanzia e poi il disastro dei profughi in Grecia, o in Macedonia, viene raccontato con la trama narrativa della distanza sembri davvero un gioco. Giochi con le frontiere: dove non mancano le interviste ai protagonisti, nei pit stop improvvisati ai posti di blocco, e dove lo spettacolo sta tutto nel superamento dei percorsi definiti come il tratto di mare tra Turchia e Grecia, il soggiorno a Kos o a Lesbo, l’attraversamento della Macedonia e del terribile filo spinato ungherese.
E poi l’Europa, con la portavoce Mogherini con camicia bianco abbagliante in un saletta azzurrina per conferenze stampa che parla di migranti, sembra davvero la giuria di giochi senza frontiere. Solo che le frontiere, o meglio il suo superamento, sono il gioco vero e proprio. Zoom sui canotti presi per lasciare la Turchia, roba da fil rouge dei giochi senza frontiere, sugli scontri con la polizia greca, sulle gare per prendere i pochi treni in Macedonia e, infine, il grande meeting con i gorilla dell’ungherese Orbàn. E persino i premi sono da giochi senza frontiere: senza paura del ridicolo la televisione italiana ha detto che “l’Europa” ha stanziato 90.000 euro per la prima emergenza in Macedonia. I costi di una giornata di acqua e fazzoletti di carta, se va bene, oppure per il catering di una puntata con tanti palloncini colorati.
E’ vero che l’evidenza dei contenuti morali presenti nelle immagini è un mito, specie se si crede che queste promuovano o impongano qualcosa di edificante. Basta vedere la reazione di tanti ragazzi ai documentari, tra l’altro sempre meno frequenti, sui campi di concentramento nazisti. Dopo un quarto di secolo di giochi di massa poi, gli unici che sono riusciti a far passare contenuti morali (o quelli che pensano essere tali) ai giovani parlando la loro lingua sono i media-center dell’Isis.
Ma è altrettanto vero che tanto più l’immagine è distante, tanto più sembra che le telecamere stiano guardando i profughi come se fossero in bottiglia, tanto più le reazioni razziste si scatenano. Se il dolore a distanza e la sofferenza spettacolo scatenano l’effetto medici senza frontiere, la medicalizzazione della soluzione al posto della politica, la gara ad osservare i profughi, con qualche intervista sul campo da gioco, ripristina la distanza tra spettatore e disastro. E tanto più quella distanza è ripristinata tanto più è possibile il delirio: ad ogni strage si trova qualcuno pronto a parlare di diritti negati ai bianchi nello stesso istante in cui muoiono i neri. Il delirio, classicamente, è associato al disorientamento spaziale e temporale. I media che rappresentato i profughi con una distanza che disorienta permettono così ai Salvini di delirare.
Ecco poi che arriva qualcosa che è davvero simbolo del disastro, ecco qui questo furgone, dal Kronen Zeitung austriaco. Il furgone porta la confezione di una marca di wurstel sloveni, contiene i corpi di decine di profughi asfissiati. La marca ha colori e immagini di un qualsiasi marchio che potrebbe sponsorizzare un nuovo giochi senza frontiere. Mentre il gioco con le frontiere ha prodotto l’ennesimo score di decine di morti. Tra il brand del furgone e i morti che contiene, semanticamente, non potrebbe esserci più distanza. Infatti l’Europa delira.
Redazione, 27 agosto 2015
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