di Michele Paris
A pochi giorni dal voto del Congresso americano sull’accordo per il
nucleare iraniano, raggiunto a Vienna lo scorso mese di luglio, i leader
democratici e l’amministrazione Obama stanno producendo il massimo
sforzo per raccogliere i consensi necessari all’interno della
delegazione del loro partito e neutralizzare gli effetti di un voto
contrario praticamente certo da parte della maggioranza repubblicana.
La
Camera e il Senato di Washington dovrebbero esprimersi sull’intesa che
ha sbloccato lo stallo attorno al programma nucleare della Repubblica
Islamica pochi giorni prima dell’ultima data utile, prevista per il 17
settembre.
L’accordo, siglato dagli USA e dagli altri paesi che
formano il gruppo dei P5+1 (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna,
Germania), non è in realtà un trattato formale sul quale il Congresso
USA è chiamato per legge a dare la propria approvazione. Il voto di
settembre è invece la conseguenza di un compromesso raggiunto mesi fa
tra il presidente Obama e la leadership repubblicana, fortemente
contraria all’accordo e ben decisa a rivendicare il diritto di bocciarlo
o ratificarlo in cambio dell’astensione al boicottaggio dello sforzo
diplomatico promosso dalla Casa Bianca.
Anche se molti deputati e
senatori non hanno ancora manifestato pubblicamente la propria
intenzione di voto, i numeri sembrano al momento essere favorevoli a
Obama e, quindi, alla sostanziale ratifica dell’accordo. L’approvazione
del testo negoziato a Vienna difficilmente potrà però risparmiare un
imbarazzo politico al presidente.
La maggioranza del Congresso
respingerà infatti l’accordo sul nucleare, il quale verrà salvato
soltanto dal veto di Obama o, tutt’al più, da un consolidato ostacolo
procedurale previsto dalle regole del Senato (“filibuster”).
In
quest’ultimo caso, l’imbarazzo per Obama sarebbe tutto sommato relativo,
visto che formalmente non ci sarebbe un voto contrario, anche se
saranno necessari almeno 41 voti su 100 a favore dell’accordo. Dal
momento che tutti i senatori repubblicani dovrebbero votare contro e che
i democratici occupano 46 seggi alla camera alta del Congresso, la Casa
Bianca può permettersi di perdere cinque senatori e riuscire comunque a
impedire la bocciatura dell’accordo.
Se i repubblicani dovessero
invece spuntarla e far passare una risoluzione di condanna in entrambe
le camere, privando il presidente dell’autorità di sospendere le
sanzioni contro l’Iran approvate dal Congresso, come già ricordato Obama
sarà costretto a ricorrere al veto e la Casa Bianca dovrà garantirsi
l’appoggio di almeno 34 senatori per evitare che esso venga annullato
con un voto dei due terzi dei membri di Camera e Senato.
Finora,
solo due senatori democratici hanno dichiarato pubblicamente di voler
votare contro l’accordo: il probabile prossimo leader del partito al
Senato, Chuck Schumer (New York), e Robert Menendez (New Jersey). Tra i
favorevoli spicca invece il leader di minoranza, Harry Reid (Nevada), la
cui decisione annunciata domenica scorsa potrebbe incoraggiare altri
colleghi a seguirne l’esempio.
Come ha spiegato martedì il New York Times,
la garanzia di un voto favorevole all’accordo data recentemente da
senatori democratici provenienti da stati dominati politicamente dai
repubblicani – come Joe Donnelly dell’Indiana o Claire McCaskill del
Missouri – ha fatto aumentare sensibilmente le probabilità di un esito
positivo per la Casa Bianca.
Le attenzioni sono concentrate in
larga misura sul Senato, poiché alla Camera, dove non è prevista la
clausola del “filibuster”, gli equilibri sembrano ormai consolidati.
Qui, la netta maggioranza repubblicana assicurerà la bocciatura
dell’accordo sul nucleare ma le possibilità di mettere assieme il numero
di voti necessari a cancellare il veto presidenziale appaiono
attualmente piuttosto scarse.
Ai repubblicani servirebbero 146
voti di deputati democratici, ma qualche mese fa ben 150 membri del
partito di Obama alla Camera avevano sottoscritto una lettera aperta a
favore dell’accordo. A tutt’oggi, da questo gruppo non si segnalano
defezioni, mentre una manciata di altri deputati democratici ha nel
frattempo dichiarato il proprio appoggio all’intesa raggiunta a Vienna.
I
timori che i vertici democratici nutrono in vista del voto di metà
settembre sono legati per lo più alla possibilità che i repubblicani
possano collegare alla risoluzione relativa all’accordo con l’Iran
alcuni emendamenti politicamente difficili da respingere, come la
richiesta che Teheran riconosca Israele o che vengano liberati alcuni
cittadini americani detenuti nelle carceri della Repubblica Islamica.
Eventuali
emendamenti relativi a Israele risulterebbero problematici per vari
senatori che tradizionalmente sono molto legati alla lobby ebraica,
protagonista in questi mesi a Washington di un’accesa quanto dispendiosa
campagna contro l’accordo.
Alcuni senatori ufficialmente ancora
indecisi, perciò, sembrano intenzionati a chiedere rassicurazioni alla
Casa Bianca, al fine di garantire la superiorità militare di Israele in
Medio Oriente o la difesa dell’alleato da una fantomatica minaccia
militare iraniana.
Le
prospettive di sopravvivenza dei frutti di una trattativa diplomatica
internazionale durata anni non sono ad ogni modo legate soltanto alle
manovre o ai calcoli aritmetici dei membri del Congresso americano. I
contrasti osservabili a Washington su un accordo dalle potenziali
conseguenze strategiche enormi riflettono piuttosto le divisioni
esistenti all’interno della classe dirigente d’oltreoceano circa
l’approccio da tenere nei confronti dell’Iran e, ancor più, sulle
prospettive del declinante imperialismo statunitense.
Se il
Partito Repubblicano, spostato sempre più a destra, continua a
rappresentare in larghissima misura i sentimenti irriducibilmente
guerrafondai dell’apparato militare e dell’intelligence, nonché del
mondo degli affari che ruota attorno ad esso, buona parte di quello
democratico predilige un atteggiamento parzialmente diverso.
Questa
inclinazione risulta prevalente all’interno dell’amministrazione Obama
e, pur non escludendo in nessun modo il ricorso all’aggressione
militare, almeno per quanto riguarda l’Iran prevede per ora il tentativo
di percorrere la strada della diplomazia come opzione più idonea alla
difesa degli interessi americani.
In questo modo, e senza
comunque escludere minacce o la reintroduzione delle sanzioni una volta
revocate, permette teoricamente di evitare nel breve periodo il
ripetersi delle conseguenze destabilizzanti provocate dalle disastrose
avventure belliche promosse dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio.
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