di Federica Iezzi – Il Manifesto
Vecchie
navi da carico che fino allo scorso marzo trasportavano bestiame,
ora almeno una volta a settimana, dopo 30 ore di navigazione,
scaraventano debilitati rifugiati dallo Yemen in Somalia o a
Gibuti. I mercantili partono dal porto yemenita di al-Mokha, a ovest
della città di Taiz, dal porto di Hodeida, nell’omonimo
governatorato, e dal porto di al-Mukalla, nella regione costiera di
Hadhramaut. Seguono la tratta prestabilita nel golfo di Aden.
All’ingresso del Mar Rosso, Bab al-Mandeb è
il canale chiave di trasporto che separa l’Africa dalla penisola
arabica. Largo solo 30 chilometri nel punto più stretto. Nello
stretto ci sono tre principali rotte di contrabbando, tutte poco
distanti dal porto di al-Mokha. Rotte non soggette ai controlli di
sicurezza per anni, da sempre utilizzate per il traffico di armi,
droga, petrolio e persone. Ignote perfino alle navi militari della
Coalizione saudita dispiegate nell’area.
Nadheer, un avvocato yemenita, racconta:
«Il viaggio può costare dai 100 ai 300 dollari. Anche per i bambini.
Le barche trasportano 200 persone e 600 tonnellate di merce». E
continua: «Lo Yemen è diventato un luogo difficile da
abbandonare. La via di terra per l’Arabia Saudita è bloccata dai
ribelli houthi. Le città costiere meridionali presidiate dagli
houthi sono inavvicinabili».
I rifugiati sbarcano in Somalia, nei porti
di Berbera e Lughaya, nella regione autonoma del Somaliland, o nel
porto di Bossaso, nel Puntland, e trovano rifugio temporaneo
spesso nei paralizzanti campi spontanei, non ufficiali, dove c’è
energia elettrica per appena 8 ore al giorno.
Tra i rifugiati, ci sono anche somali bantu
fuggiti venti anni fa dalla spirale di violenza che tuttora ancora
devasta la loro terra. All’epoca trovarono casa in Yemen, ma ora il
governo somalo di Hassan Sheikh Mohamud ha offerto il suo sostegno
alla Coalizione saudita nella lotta contro i ribelli di al-Qaeda
guidati dall’emiro Qasim al-Raymi, e contro la minoranza sciita
houthi, appoggiata dalle forze fedeli all’ex presidente yemenita
Ali Abdullah Saleh e dall’Iran. Dunque la popolazione yemenita che
fino a poche settimane fa conviveva con i trapiantati somali, oggi
li aggredisce.
I dati dell’Unhcr, l’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, parlano di
28.596 yemeniti arrivati in Somalia, tra cui almeno 12.000 bambini,
dall’inizio del conflitto. Nel centro di accoglienza,
allestito nel porto di Berbera, uomini, donne e il pianto
inconsolabile dei bambini possono sostare solo tre giorni.
Ricevono cibo, acqua e cure mediche. Ci sono solo cinque servizi
igienici per più di 400 persone. Da Berbera in massa si
precipitano nella capitale Hargheisa, dove si accodano alle
infinite file delle strutture della Mezzaluna Rossa, per mangiare e
per chiedere asilo.
Senza cibo, né scarpe, secondo i dati
dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, 23.360
rifugiati sono transitati nel centro di al-Rhama e poi accolti nel
campo di Markazi, nella piccola città portuale di Obock, in Gibuti. Su petroliere o mercantili. Senza posti veri. Un commercio fiorente di biglietti e passaporti.
Faaid, un agente marittimo del porto di
Berbera, ci dice che «1.325 persone sono arrivate in Somalia e a
Gibuti nelle due settimane successive all’inizio del conflitto in
Yemen». Le Nazioni Unite parlano di almeno 900 persone arrivate nel
Corno d’Africa negli ultimi 10 giorni. 58.234 il totale di arrivi tra
Gibuti, Somalia, Sudan e Etiopia. Secondo i doganieri del porto di
al-Mokha, più di 150 persone lasciano lo Yemen legalmente ogni
giorno. Sono i pescatori con le loro barche o chi ha soldi
sufficienti per comprare un posto sui mercantili. E ogni
giorno, come merce di contrabbando, più di 400 persone affrontano
quel mare, su barche di medie dimensioni. Di proprietà di
commercianti o pescatori yemeniti, vengono comprate qualche
giorno prima della prevista partenza, da bande di trafficanti.
Tutto inizia in mezzo alle 18.000 persone
del campo profughi di al-Kharaz, a 150 chilometri a ovest del porto
di Aden. Strade bucate dai mortai. Nella deserta regione del sud dello
Yemen, durante la distribuzione di cibo da parte del World Food
Programme, quando le persone sono ammassate e le temperature
arrivano a 35 gradi, Fadaaq, un ragazzo forse di 19 anni, inizia la
“ricerca”. Fadaaq, ci raccontano nel campo, lavora per
contrabbandieri migranti in Kuwait. L’obiettivo è di trovare almeno
30 persone per ogni viaggio.
Il trasporto dal campo al porto di
al-Mokha è in autobus. Ogni rifugiato paga dai 25 ai 50 dollari,
incontrando diversi checkpoint militari sulla strada, frequente
target dei miliziani di al-Qaeda.
C’è anche chi, dai quartieri di
Crater, Ash Sheikh Outhman, Khur Maksar e Attawahi della città di
Aden, cammina a piedi per due giorni interi, fino a al-Mokha. Lo Stato
Islamico e al-Qaeda hanno bloccato la maggior parte delle strade tra
Sana’a e Aden.
Si aspettano anche 15 giorni nel porto, in
attesa di un posto sui mercantili o in attesa di saldare il debito
con i contrabbandieri. Si dorme per terra su teli. Si aspetta l’acqua
dalle organizzazioni umanitarie. Agenti di polizia, guardie di
frontiera e diplomatici fanno finta di non vedere.
Il contrabbando di migranti coinvolge
reclutatori, trasportatori, albergatori, facilitatori,
esecutori, organizzatori e finanziatori. Spesso i trafficanti
sono essi stessi migranti. Spesso i migranti clandestini guidano le
barche. Spesso si usano imprese ad alta intensità di capitale per il
riciclo dei proventi.
Trecento passeggeri è il massimo per una
barca di 17 metri. Ma le barche vengono caricate di 700–800 persone.
Su quasi ogni barca la storia è la stessa. Vengono raccolti tutti i
telefoni cellulari. Tutti partono senza bagaglio. Hanno diritto a
mangiare, bere e andare in bagno fino al momento dell’imbarco.
Ci racconta Reem: «Mi hanno portata in un
posto dove ho incontrato altri come me, in viaggio verso la Somalia.
In totale eravamo 157. Una parte del viaggio l’ho fatta in piedi, per
far posto ai miei figli. Poi sono riuscita a sedermi con le gambe
appoggiate al petto. Sono rimasta per più di dieci ore così». Reem ci
ha detto che arrivati a Berbera, in Somaliland, hanno spinto tutti
fuori dalla barca, in mare. Alcuni sono annegati. Altri sono riusciti a
raggiungere la riva. La barca è sparita in pochi minuti tra le onde.
A Mareero, Qaw e Elayo, nella regione somala del Puntland, a Obock, in Gibuti, a Bab al-Mandeb, al largo della città di Taiz, e nel golfo di Aden, l’Unhcr ha registrato il più alto numero di decessi nel Mar Rosso e nel Mar Arabico.
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