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Questo articolo è tratto da un mio intervento ad un convegno del marzo 2013 presso l’Università Guglielmo Marconi sul populismo. Buona lettura.
Il recente successo della lista del Movimento 5 stelle è stato variamente interpretato, ma, nel complesso, si è registrata una vasta convergenza nella sua definizione come movimento populista, il che, peraltro ha un fondamento, dato che lo stesso movimento ha fatto sua questa definizione, un po’ riconoscendosi in essa, un po’ per ritorsione polemica.
Ovviamente si tratterebbe di un “populismo sui generis”, che meriterebbe un’analisi particolareggiata, che, a sua volta, richiederebbe una soddisfacente definizione della categoria “populismo”.
Come è noto, tale qualifica, nel tempo, è stata attribuita a movimenti fra loro molto diversi: dal peronismo alla Cause du Peuple, dal petainismo al gaullismo, dal poujadismo a Lotta Continua, da Getulio Vargas a Mogen Glistrup, da Lazaro Cardenas a Fidel Castro ed anche in tempi recenti la qualifica è riferita ai personaggi come Charles De Gaulle, Ronald Reagan, Ross Perrot e, via via, Collor de Mello, Jordi Pujol, Bernard Tapie, Fujimori, Stanislaw Tyminski, Pym Fortuyn o Jorg Haider.
Un insieme di movimenti, personaggi, fenomeni, talmente eterogeneo, da rendere del tutto sfuggente la categoria. Tutto questo è stato determinato da un uso polemico e spesso improprio del termine spesso attribuito a movimenti che non si riconoscevano affatto come tali. In realtà a definirsi tali ed ad aver elaborato una teoria politica coerentemente populista furono i narodniki (appunto: populisti) russi, dopo la qualifica venne estesa per analogia ai movimenti anarchici (peraltro Bakunin proveniva dal proto-movimento populista) e, via via ad altri fenomeni sempre più diversi.
Questo uso tanto disinvolto della categoria ha finito per confondere le acque, coprendo troppe cose diverse fra loro. Soprattutto, il termine ha ricompreso aspetti (prima ancora che correnti o movimenti) diversi fra loro. In realtà, il “populismo” spesso designa cose diverse:
a) una corrente di pensiero presente nella filosofia europea sin dall’illuminismo e poi, attraverso la rivoluzione francese, passata ai narodniki (che erano gli eredi dei “decabristi”, i giacobini russi) e variamente presente nel pensiero di molti altri autori;
b) un particolare fenomeno di rivolta dal basso delle classi subalterne alle rispettive èlite e con aspirazioni democratiche (ogni rivoluzione è partita da movimenti che potrebbero a buon diritto essere definiti populisti ed è poi cresciuta sino a prendere il potere trasformandosi in altro);
c) una tecnica di raccolta del consenso usata da èlite politiche in ascesa ed in cerca di una base di riferimento, ma con progetti antagonisti alla democrazia e sostanzialmente autoritari.
In particolare, va detto che la rivolta delle classi subalterne, spesso parte da una avversione alla politica in quanto tale, vista come sapere artificioso contrapposto al naturale buon senso popolare, che sarebbe in grado di trovare da solo la soluzione ai problemi sociali. E, dunque, parte da un’impostazione ipo-politica che, rifiutando la politica come specialismo, cerca di ridurre il peso dei governanti e di ridimensionare il ruolo dello Stato a tutto vantaggio dei meccanismi spontanei del sociale. E, in questo, c’è un evidente punto di contatto con il neo liberismo (ma poi torneremo sul punto).
Ovviamente, i tre aspetti non sono del tutto separabili: per quanto una èlite possa essere cinica ed usare strumentalmente la retorica populista, deve comunque contaminarsi con una qualche ideologia di tipo populista. Ad esempio, fascismo e nazismo furono certamente movimenti non ipo, ma, semmai, iper-politici, con un fortissimo senso dello Stato e della politica di potenza ad esso connessa, ma cavalcarono molti temi classici della retorica populista: l’autorappresentazione di sé come espressione della totalità del popolo incarnata dal ruolo del capo carismatico (in questo senso, l’ideologia völkisch giocò un ruolo non secondario nella formazione della cultura politica del movimento nazionalsocialista), l’attacco al parlamentarismo come fonte di corruzione ecc.
In questo quadro, i gruppi dirigenti in ascesa che usano tecniche populiste di raccolta del consenso, tendono non a sviluppare forme di democrazia diretta, magari di tipo comunitario (come è nelle ideologie realmente populiste) quanto piuttosto a presentare sé stessi come le naturali èlite espresse dal popolo, che sostituiscono le false èlite prodotte dal corrotto meccanismo della democrazia parlamentare. Principii espressi con evidenza solare nello slogan centrale del nazismo “ein folk ein reich ein fhurer” e successivamente sistematizzati organicamente da Carl Schmitt.
Naturalmente esiste una gradazione molto diversa nell’uso della retorica populista e non è detto che un esponente politico debba far ricorso a tutto l’arsenale retorico populista o pensare di smantellare il sistema di democrazia rappresentativa: ad esempio, se pure si può parlare di tratti fortemente populisti per personaggi come De Gaulle o Reagan, né l’uno né l’altro hanno usato molti degli argomenti tipicamente populisti, né pensato di realizzare sistemi politici diversi dalla democrazia liberale, per quanto abbiano fortemente accentuato il ruolo del Capo dello Stato e dell’esecutivo. E può anche accadere che il persistere di una rivolta populista, che non evolva verso forme di maggiore democrazia, produca un sostanziale deterioramento della qualità democratica di un sistema politico.
Al contrario, quando la rivolta populista evolve in senso democratico tende ad dar vita a nuovi organismi che valorizzino la partecipazione popolare istituzionalizzandola (Assemblea Nazionale, Parlamento, Soviet, Consigli Operai ecc.), anche se, in alcuni casi, questo non evita successive degenerazioni di tipo totalitario, come nel caso della rivoluzione russa.
In questa sede, non cercheremo di venire a capo della questione, ma, per affrontare il caso italiano, ci limiteremo a vedere la questione da un solo aspetto ricorrente in tutti i casi di movimenti indicati come populisti (o, per lo meno in gran parte di essi): l’avversione variamente modulata per la politica, contrapposta alla naturale saggezza, bontà e produttività del popolo. Questo dà luogo ad una vera e propria “retorica dell’antipolitica” articolata su una pluralità di registri espressivi. Si va dall’avversione alla politica in quanto tale, per cui il sociale basterebbe a sé stesso e la politica è solo una inutile complicazione funzionale solo a giustificare i privilegi e le ruberie del ceto politico, alla distinzione fra una politica buona ed una cattiva, in base alla qualità morale del ceto politico.
Esistono, tuttavia, delle “costanti” che si presentano in tutti i vari registri:
1. nel carattere plebiscitario delle soluzioni proposte;
2. nel ruolo del “capo” carismatico cui affidarsi come garanzia di un retto esercizio del potere;
3. nel rifiuto della complessità della politica o, quantomeno, in una sua visione fortemente semplificata.
I movimenti populisti aspirano a presentarsi come portavoce del “popolo”, di tutto il popolo non frazionato da enti intermedi fra Stato e società, per questa ragione, non apprezzano l’articolazione pluralistica, cercano soluzioni plebiscitarie (referendum, elezione diretta del capo dello Stato, elezione diretta dei governatori locali ecc.).
Conseguentemente, il movimento di tipo populista cerca in primo luogo un capo carismatico capace di portarlo alla vittoria, un’incarnazione dello spirito di rivolta, sottratto alle alchimie partitiche. Nello stesso tempo, il leader carismatico agisce da “riduttore di complessità”, rispondendo anche all’esigenza di forte semplificazione della politica. Il populismo aspira a portare i problemi “al livello del popolo” che ritiene educato quanto basta a capire l’essenza dei problemi, delegando il dettaglio tecnico a quanti il “Capo” designerà a questo scopo. In un certo senso, il “tecnico” (inteso come depositario di un sapere esclusivo che determina la scelta politica) è ancora più del “politico” il nemico da battere, per cui le questioni vanno spogliate dalla loro complessità, ridotte nei termini più “semplici” e decise, affidando al tecnico un ruolo meramente esecutivo terminale. E spesso questa avversione al tecnico si accompagna ad una istintiva diffidenza verso l’intellettuale in genere (l’anti intellettualismo è una componente estremamente ricorrente del populismo).
Tutto ciò premesso, rinveniamo effettivamente molti di questi tratti nel M5s (la suggestione della democrazia diretta, il ruolo del “Capo carismatico”, il rifiuto di considerarsi un partito, l’autopercezione come popolo nella sua interezza, il rifiuto di alleanze con altri soggetti politici ed un forte identitarismo, una certa diffidenza verso i tecnici, ecc.), tuttavia contraddetti da altri aspetti.
D’altra parte, anche in altri paesi europei, già dagli anni novanta, si sono affacciati movimenti di tipo populista con caratteristiche similari, anche se prevalentemente collocati a destra, mentre il M5s ha piuttosto una caratterizzazione meno netta e con forti sfumature di sinistra. E l’irrompere della crisi ha gonfiato le vele di questi movimenti di protesta. Dunque, negli ultimi anni, siamo in presenza di una “insorgenza populista” contro le èlite politiche e finanziarie che non riescono a portare il continente fuori dalla crisi. Tuttavia, il caso italiano presenta delle particolarità uniche meritevoli di attenzione e che affondano le loro radici più indietro nel tempo.
L’insorgenza populista in Italia ha le sue premesse storiche nel movimento referendario promosso da Achille Occhetto, Mario Segni e Marco Pannella. Esso già si muoveva in una precisa ottica plebiscitaria, mettendo sotto accusa il “consociativismo” dei partiti ed invitando ad una riforma elettorale che avrebbe espropriato i partiti del potere di crisi. “Scegli di scegliere” fu lo slogan con il quale il movimento referendario invitava all’abrogazione della legge proporzionale ed il passaggio ad un sistema maggioritario che avrebbe reso il popolo titolare della scelta fra le diverse formule di governo.
A dare vigore a questo movimento venne la stagione di Mani Pulite che, attraverso i processi per corruzione operò come potente delegittimatore della classe politica del tempo (che, peraltro, era effettivamente responsabile dei reati di cui era accusata), ma con essa delegittimò anche il modello di democrazia disegnato dalla Costituzione, che privilegiava il principio di rappresentanza rispetto a quello di stabilità dell’esecutivo, come è proprio delle democrazie parlamentari. E la vittoria referendaria del 18 aprile 1993 segnò l’inizio del processo di de-costituzionalizzazione del nostro ordinamento. Di fatto, dal 1993 il nostro paese – anche per effetto della crescente interdipendenza mondiale propria dei processi di globalizzazione – ha vissuto in un regime di “Costituzione provvisoria” segnato da non infrequenti e disorganiche riforme e da un caotico mutare di rapporti fra le diverse istituzioni. In particolare fra organi di potere politico ed organi di potere giudiziario.
Il protagonismo dei magistrati (ed in particolare delle Procure) fu il prodotto tanto delle evoluzioni del sistema dei media, che spingeva verso la “notizia gridata”, quanto della riforma del codice di procedura penale del 1989, con il passaggio dal rito inquisitorio al rito accusatorio (il processo “a la Perry Mason” si disse) che assegnava al Pm un ruolo inedito in passato. E l’ondata di antipolitica del tempo, trovò nei Caselli, Di Pietro, Borrelli ecc. altrettanti leader mediatici che contribuirono a gonfiare le vele della protesta.
L’embrionale processo di globalizzazione produsse, alla fine, una particolare “emulsione di liberismo e populismo” in Forza Italia, con il suo leader carismatico, con precise caratteristiche plebiscitarie. Un “partito del leader” nella più classica accezione dei movimenti populisti. Di questa miscela di liberismo e populismo Fi fu l’espressione più piena, ma non l’unica.
“Partito del leader” fu anche la Lega di Umberto Bossi, con una definizione parzialmente diversa: dove Forza Italia si caratterizzava per l’appello anti fiscale al mondo del lavoro autonomo, la Lega, che pure cavalcava lo stesso tema e si rivolgeva allo stesso target elettorale, si caratterizzava più per il suo accentuato localismo e per l’ostilità verso l’immigrazione risolti nel richiamo alla “piccola patria”.
Partito populista del leader fu anche la An di Gianfranco Fini che ebbe caratterizzazione più meridionale e legata al pubblico impiego e che, al pari della Lega, ma a differenza di Fi, nutriva il suo populismo di una certa quota di giustizialismo.
Partito del leader fu anche l’Italia dei Valori di Di Pietro, diretta filiazione dell’antipolitica di matrice giudiziaria, che miscelò il populismo con un giustizialismo particolarmente virulento ed antigarantista.
Ma forti elementi di populismo sono emersi anche nel partito erede del Pci, il Pds-Ds-Pd che non è mai riuscito ad essere un “partito del leader” (anche se diversi suoi segretari ci hanno provato, pur senza successo), ma che ha costantemente difeso il sistema elettorale maggioritario, con le sue caratteristiche implicitamente plebiscitarie, ed è stato fortemente contaminato dal giustizialismo. Propria della pratica politico-organizzativa del Pd è stata la singolare esperienza delle “primarie fai da te, all’italiana”, prive di qualsiasi regolamentazione legislativa e con norme cangianti anche dal punto di vista dello statuto del partito.
E, per certi versi, anche Rifondazione Comunista ha praticato il terreno della retorica populista sia nella sua caratterizzazione di “partito del leader” durante la lunga segreteria di Bertinotti, sia nel discorso politico che in diverse occasioni non ha rifuggito toni apertamente populisti (come non dimenticare il “Che anche i ricchi piangano” che campeggiava in un manifesto a sostegno della manovra fiscale del governo Prodi nell’estate del 2007).
Persino la melanconica esperienza del governo dei “tecnici” guidato da Mario Monti, ha spesso tentato di conciliare la sostanza antipopolare della sua politica economica, con un retorica populista come i bliz anti-evasori a Cortina o sulla riviera ligure o criminalizzando categorie come i taxisti o i farmacisti, additati al pubblico ludibrio quali esempi preclari di evasione fiscale. Ma va detto che si è trattato di un tentativo assai maldestro, che ha raggiunto più risultati sul piano dell’intrattenimento che su quello dei reali consensi (come gli impietosi risultati del 27 febbraio 2013 documentarono).
Dunque, durante il ventennio della seconda Repubblica, il populismo è stato fortemente presente come pratica di governo, forma di organizzazione politica (il partito del leader) e tecnica di canalizzazione del consenso. Pertanto, quella attuale è una rivolta a forti tratti populisti ma contro una “èlite populista” e questo rappresenta la sua peculiarità. Paradossalmente, è proprio il carattere populista della classe politica emersa dalla fine della Prima Repubblica ad innescare la rivolta populista contro sé stessa ed a determinarne le sue particolarità anche rispetto alla crisi della Prima Repubblica.
La crisi del 1992-93 ebbe una forte caratterizzazione politica, segnata tanto dal rapido dissolvimento dell’ordine mondiale bipolare, che rimuoveva antichi steccati e rimodellava il sistema politico, quanto dall’esplodere delle inchieste per corruzione che decapitava la classe politica e da una fase economica sfavorevole in particolare per i suoi aspetti monetari. Ne conseguiva una rivolta che temperava la spinta antipolitica con la persistenza di categorie di pensiero propriamente politiche: essa reclamava una nuova classe dirigente, ma pur sempre nel tradizionale schema del sistema politico precedente, organizzato sull’asse destra-sinistra, pur “deideologizzato”. Anzi la filosofia di base del nuovo sistema elettorale imponeva una partizione a due che azzerava il centro e, perciò stesso, polarizzava al massimo il sistema fra destra e sinistra. Dunque, la rigenerazione del sistema politico (attraverso la “purga” anticorruzione ed il nuovo sistema elettorale che avrebbe reso evidenti le opzioni in campo, sottraendole alle alchimie del ceto politico) avrebbero fatto uscire il paese dal momento difficile anche grazie alla “stampella europea”.
La crisi attuale ha una prevalente caratterizzazione finanziaria ed economica ed ha sullo sfondo la delegittimazione della classe politica in quanto non capace di far fronte alla crisi. Le inchieste di corruzione, peraltro numerosissime, hanno un ruolo assai meno rilevante del caso precedente, probabilmente scontando un effetto di mitritadizzazione. In particolare appaiono ormai inefficaci tanto il richiamo al ruolo salvifico dell’Europa (delegittimata essa stessa dai deludenti risultati del processo di unificazione e dalla perdurante crisi finanziaria i cui effetti sono inaspriti proprio dalla moneta comune), quanto la speranza di una rigenerazione del sistema politico dal suo interno, attraverso l’alternanza destra-sinistra. La protesta attuale respinge questa polarità ritenendola illusoria e mistificante e propone sé stessa come “Né di destra né di sinistra” ma come altro rispetto al sistema nel suo complesso. Se la protesta del 1992-93 faceva ancora uso delle categorie politiche di destra e sinistra, quella attuale le respinge per reclamare la soggettività del “popolo” in quanto tale, che si presenta nella sua “unità” contro divisioni viste come funzionali solo agli interessi della classe politica. Ed in questo senso, quella attuale è una forma di populismo radicale, estraneo alla classe politica, assai poco incline alla mediazione. La classe politica della Seconda Repubblica, ha usato il populismo come strumento di raccolta del consenso, vellicando spesso gli umori antipolitici della società, ha distrutto o ridotto all’impotenza i corpi intermedi fra Stato e società (partiti, sindacati, associazionismo ecc.) non ha prodotto alcun materiale di cultura politica (riviste, centri studi, inchieste, convegni, grandi dibattiti politici ecc. sono un lontano ricordo del passato di cui non c’è traccia alcuna nello scorso ventennio).
Per cui, se la classe politica della Prima Repubblica aveva – nel bene e nel male – condotto un’opera di alfabetizzazione politica delle classi popolari, socializzandole alla democrazia, quella della Seconda hanno fatto una sorta di sistematica “anti pedagogia politica” che ha prodotto una spoliticizzazione di massa.
Oggi, la classe dirigente ne raccoglie i risultati e deve misurarsi con questa rivolta.
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