di Michele Giorgio – Il Manifesto
«Ho fatto male a
venire qui ad Ein al Hilwe con la mia famiglia. A Damasco avrei trovato
un rifugio più sicuro, qui si combatte come in Siria». Abu Khaled,
intervistato da giornalisti libanesi, raccontava ieri il dramma di
centinaia di profughi palestinesi, molti dei quali scappati dalla guerra
civile siriana, che da alcuni giorni vivono ammassati in una
moschea di Sidone per sfuggire alle raffiche di mitra e ai lanci di
razzi e granate. Anche Jamila Shami, giunta da Yarmouk, si rammariva
dell'”errore” commesso. «Non dovevamo lasciare la Siria, siamo passati
da una guerra all’altra». Nella moschea ci sono anche tante famiglie che
da sempre vivono nel campo palestinese, costrette a subire queste
improvvise escalation di violenza. Da sabato scorso è di nuovo
guerra nelle strade strette e sporche di Ein al Hilwe, il più grande dei
12 campi profughi palestinesi in Libano dove in condizioni disumane
vivono 450 mila rifugiati della Nabka del 1948. I jihadisti di Jund al Sham
(un gruppo vicino ad al Qaeda), formato solo in parte da palestinesi,
ha rilanciato la sua campagna di attacchi contro il movimento Fatah, che
controlla il campo e che vuole l’espulsione dei jihadisti.
A luglio uomini armati hanno sparato da un’automobile in
corsa uccidendo Talal al Ourdouni, un colonnello dell’ala militare di
Fatah. Sabato scorso invece hanno cercato di assassinare Ashraf al
Armoushi, il capo dell’intelligence di Fatah. È stata la
scintilla della nuova guerra, con molte centinaia di civili costretti a
scappare sotto il fuoco incrociato e a trovare riparo nelle strade della
vicina Sidone. Il bilancio dei combattimenti è di 3 morti (tutti di
Fatah) e di una trentina di feriti. Le esplosioni hanno distrutto diverse abitazioni, molte altre sono state danneggiate gravemente.
Ieri è stato proclamato un cessate il fuoco ma in serata appariva
precario. Non è chiaro se rappresentanti di Jund al Sham abbiano preso
parte ai colloqui convocati da tutte le organizzazioni palestinesi,
inclusa la sinistra rappresentata dal Fronte popolare per la liberazione
della Palestina, per mettere fine ai combattimenti.
La presenza di Jund al Sham ad Ein al Hilwe – ufficialmente ci vivono
70 mila palestinesi ma in realtà sono il doppio, considerando i
rifugiati giunti dalla Siria negli ultimi tre anni – è nota da tempo e
gli scontri violenti con Fatah sono stati frequenti. Negli
ultimi due anni però i jihadisti si sono fatti più arroganti, sull’onda
dei successi che i loro “cugini” dell’Isis e di Nusra hanno ottenuto in
Iraq e Siria. Secondo alcune fonti inoltre possono contare su
nuove fonti di finanziamento. Per questo hanno rialzato la testa e
mettono in discussione la leadership di Fatah. Contestano inoltre la
cooperazione esistente da alcuni anni tra le formazioni politiche
palestinesi e le forze di sicurezza libanesi per tenere lontano dai
campi profughi salafiti radicali, jihadisti e la criminalità
organizzata.
Peraltro nella vicina Sidone, storica roccaforte sunnita,
non sono caduti nel vuoto gli appelli alla “guerra santa” contro gli
sciiti appoggiati dall’Iran (Hezbollah) e gli alawiti al potere a
Damasco attraverso la presidenza Assad. Non pochi giovani
sunniti sono partiti per la Siria a combattere contro gli “infedeli”,
spinti anche dagli appelli del predicatore salafita Ahmed al Assir,
che due anni fa innescò combattimenti nelle strade di Sidone costati la
vita a numerosi soldati libanesi. Qualche giorno fa è stato finalmente
arrestato all’aeroporto di Beirut dopo una lunga latitanza.
Le infiltrazioni jihadiste espongono Ein al Hilwe allo stesso destino subito nel 2007 da un altro campo profughi palestinese, Nahr al Bared
(Tripoli). Divenuto la base di Fatah al Islam, una formazione qaedista,
Nahr al Bared fu distrutto in buona parte dall’artiglieria
dell’esercito libanese e la popolazione per anni ha vissuto in container
di lamiera e in un altro campo profughi, Beddawi. L’esercito libanese
ha già rafforzato le sue posizioni in corrispondenza dei quattro
ingressi principali di Ein al Hilweh mentre i libanesi, molti dei quali
guardano (a dir poco) con diffidenza ai rifugiati palestinesi, sono
tornati a chiedere misure drastiche per riportare l’ordine nel campo
profughi.
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