In questo agosto, dopo alcuni fatti
di cronaca, televisioni e giornali non hanno fatto che parlare di droga.
Siamo convinti che tanta attenzione non sia data dal fatto che ci
troviamo nel pieno di un’emergenza ma che, semplicemente, come spesso
accade in estate, in assenza di notizie i nostri media tendano ad
ingigantire i fatti pur di sbattere un mostro qualsiasi in prima
pagina. Così fenomeni che sono endemici vengono fatti apparire come improvvise emergenze. Consapevoli
di questo, vogliamo comunque approfittare dell’occasione per
socializzare alcune brevi riflessioni che abbiamo sviluppato nel tempo, a
prescindere dai media, prima che la questione smetta nuovamente di
esistere nel dibattito pubblico.
Prima di tutto, chiariamoci su un punto: le droghe sono sempre esistite e l’uomo le ha sempre utilizzate.
Non le hanno inventate “i giovani d’oggi” o la clientela di qualche
locale trendy. Droghe diverse a seconda della posizione geografica e
delle culture, alcune utilizzate quotidianamente, altre legate a
rituali. È stato così per millenni e pur essendo cambiate nel tempo le
sostanze e le circostanze dell’utilizzo, l’assunzione di droga ha
mantenuto pressoché inalterata la sua funzione sociale.
E’ l’avvento del capitalismo a cambiare completamente le carte in tavola. La
droga inizia ad esser considerata una merce come tutte le altre, una
potenziale fonte di profitto per i padroni. Una merce “particolare”
visto che spesso crea dipendenza, ma proprio per questo più redditizia, perché riesce a garantire una domanda sempre alta e in crescita! Questo
vale soprattutto quando è soggetta a limitazioni o proibizioni, per cui
il fortunato venditore crea, ben presto, veri e propri monopoli. In un
linguaggio un pochino più tecnico, si direbbe che chi vende finisce col
costituire dei cartelli che impongono di fatto il prezzo al mercato.
Ci spieghiamo meglio. Chiunque si aggiri
per le piazze di spaccio della propria città troverà prezzi
sostanzialmente identici dappertutto. Questo perché chi gestisce il
traffico si accorda sui prezzi da applicare che sono sempre fissati al
fine di ottenere il massimo profitto. Molti conflitti criminali, non lo
scopriamo certamente noi, iniziano proprio quando qualcuno decide
“autonomamente” di abbassare i prezzi e rompere il cartello. Ecco perché
prima abbiamo parlato di una merce particolarmente redditizia:
in primo luogo per la capacità di assicurare condizioni di mercato
ideali garantendo grossi guadagni; e poi perché la droga si è dimostrata
essere un formidabile strumento di controllo sociale, pervasivo,
efficace ed estremamente più silenzioso di altri.
Padroni e i padroncini di ogni dove se ne accorsero subito, fin dagli albori. I primi quartieri operai della storia iniziarono ad essere letteralmente inondati di alcol. Gli operai, sfiniti dal lavoro in fabbrica, spendevano buona parte di quel poco che guadagnavano in alcolici, stordendosi per resistere a condizioni di lavoro durissime. Solo così diventava accettabile la nuova condizione di salariati inoffensivi e docili. La borghesia si assicurò in questo modo, contemporaneamente, ricchezza e schiavi mansueti, totalmente incapaci di ribellarsi.
Padroni e i padroncini di ogni dove se ne accorsero subito, fin dagli albori. I primi quartieri operai della storia iniziarono ad essere letteralmente inondati di alcol. Gli operai, sfiniti dal lavoro in fabbrica, spendevano buona parte di quel poco che guadagnavano in alcolici, stordendosi per resistere a condizioni di lavoro durissime. Solo così diventava accettabile la nuova condizione di salariati inoffensivi e docili. La borghesia si assicurò in questo modo, contemporaneamente, ricchezza e schiavi mansueti, totalmente incapaci di ribellarsi.
Oggi, a distanza di due secoli, è
facile ritrovare lo stesso utilizzo dell’alcol come deterrente per
prevenire qualsiasi forma di resistenza da parte dei lavoratori.
Prendiamo alcuni piccoli esempi che abbiamo incontrato nel percorso di inchiesta sul mondo del lavoro che ormai portiamo avanti da anni.
Qualche tempo fa, un operaio friulano ci
raccontava che ancora oggi nelle zone del nord-est, quello che fino a
qualche anno era portato come modello produttivo vincente, è uso comune
da parte del padrone della fabbrichetta offrire da bere a fine giornata.
Una sorta di benefit non contrattualizzato. Dopo 10 ore al tornio,
prima di tornare a casa, il magnanimo padrone porta gli operai a bere al
bar dove gli offre tutto l’alcol che vogliono, mica un bicchierino! Le
serate, ci spiegava, finiscono con gli operai, ormai sbronzi, che se ne
tornano a casa con la forza che basta solo a sprofondare nel sonno. Il
giorno dopo si ricomincia, uguale, e quello dopo ancora. Chi ci ha
raccontato questi episodi ci ha confessato di sentirsi, dopo qualche
anno di quella routine, completamente annullato come essere umano,
entrato in un circolo vizioso che ti rende simile a un macchinario
completamente in balia del padrone.
Ci è capitato, ancora, di
conoscere le storie di chi utilizzava la droga non soltanto per
stordirsi dopo, ma anche per “resistere” durante il lavoro. Per non
cedere ai turni massacranti, ai ritmi frenetici, alla fatica, al sonno.
Tra gli autisti e gli autotrasportatori, per esempio, l’utilizzo delle
anfetamine e della cocaina è estremamente diffuso, nonostante comporti
notevoli rischi per i dipendenti stessi e per gli altri utenti della
strada. I padroni sono a conoscenza di queste pratiche ma naturalmente si guardano bene dal contrastarle. Lo
stesso vale per il campo della ristorazione, dove in tanti ci hanno
descritto la cocaina come una costante, tanto che può capitare che il
pusher sia lo stesso datore di lavoro che così si arricchisce due volte
sulla pelle dei suoi dipendenti!
Va detto anche che l’impiego di
alcol e droga come “anestetico” sociale non si è mai limitato al singolo
individuo. La Storia ha dimostrato come sia stato un’arma estremamente
utilizzata – ed efficiente – per annientare i movimenti di protesta
progressisti che godevano di grande consenso popolare in tanti luoghi
della società.
Prendiamo gli Stati Uniti, nel ventennio
tra gli anni ’60 e ’70. Lì le forze repressive – l’Fbi in primis – in
accordo con le organizzazioni malavitose, decisero di sommergere di
eroina a basso costo i ghetti neri pur di arrestare l’avanzata impetuosa
dei movimenti afro-americani. Un’operazione di cui ancora ci si
“vanta” ai piani alti della Politica e della Difesa negli USA, perché
permise di annichilire un’intera generazione di giovani segregati da
razzismo e sfruttamento, spegnendo in loro ogni prospettiva
rivoluzionaria. Contemporaneamente, con i proventi del traffico di
droga, si finanziò la controrivoluzione in America Latina, aiutando
materialmente le forze anticastriste in particolare. Quando si dice “due
piccioni con una fava”!
Qualcosa di molto simile è successo
anche in Italia nel decennio successivo. Basta parlare con qualche
compagno che ha vissuto gli anni ’70 e ’80 per rendersi conto del ruolo
che l’eroina ha avuto nel generare il famigerato “reflusso” dei
movimenti di quegli anni. Tanti militanti, tanti giovani finirono in
quella trappola, spesso senza uscita, tanto che la lotta all’eroina è
diventata un punto fermo dei movimenti italiani fino alla prima metà
degli anni ’90.
Quella sì, nel nostro paese, fu una vera e propria emergenza: la microcriminalità esplose, così come le carceri,
neppure i figli dei ricchi ne furono immuni. L’opinione pubblica
premeva perché lo Stato facesse qualcosa, e così lo Stato con notevole
ritardo fu costretto a fronteggiare il problema. Lo fece male,
malissimo, negando una qualsiasi riflessione sulle cause sociali
che avevano portato a quel boom, e puntando tutto sulla penalizzazione,
sulla reclusione carceraria. Nessuno parlò del fatto che i consumatori
si concentrassero nelle fasce più povere della popolazione, nelle zone
più depresse, dove la disoccupazione era più alta.
Ma se non si incide sulle cause è impossibile risolvere un problema, così l’emergenza è durata a lungo, l’eroina ha continuato a mietere vittime. Col
pretesto di combatterla, i governanti hanno ulteriormente militarizzato
la società, riuscendo addirittura a fiutare l’occasione per un nuovo business,
rappresentato dalle “comunità” in cui venivano spediti i
tossicodipendenti. Molte erano vere e proprie imprese – lo dimostrano i
fatturati da capo giro, oltre agli innumerevoli finanziamenti pubblici e
privati! Fatte salve rare e positive eccezioni, nelle comunità la “cura” per il tossicodipendente consisteva essenzialmente nell’isolamento, nella costrizione – anche nell’OPG che abbiamo occupato noi! –, nella colpevolizzazione, nel lavoro (quasi sempre gratuito) e talvolta nella violenza fisica.
Cosa ha stroncato, allora, l’“epidemia”? La crescita e la consapevolezza di una generazione che aveva ben impressa negli occhi l’immagine di quell’esercito di zombie che
si aggirava nelle metropoli e nelle provincie. E’ stato il loro
terrore, negli anni ’90, ad affievolire quel fardello collettivo, senza
riuscirlo a vincere davvero. E infatti cambiavano le sostanze, le mode, ma il problema si ripresentava, sempre uguale, sempre peggio, perché nessuno aveva osato affrontarlo alla radice. Iniziava a girare la cocaina anche fuori dai circuiti d’élite, e soprattutto si fecero largo le droghe sintetiche.
Fu una sorta di rivoluzione. Le nuove
sostanze sembravano l’ultimo ritrovato della tecnica, costavano poco e
“rendevano” notevolmente. Non davano dipendenza fisica, erano
apparentemente prive di seri effetti collaterali ed in più – cosa
fondamentale – erano facili da occultare e semplici da assumere. Insomma,
le droghe sintetiche misero tutti d’accordo: i consumatori, i gestori
dei locali e l’esercito dei moralisti per i quali il problema se non si
vede (le droghe sintetiche non necessitano di fasi di “preparazione”, a differenza dell’eroina e della marijuana) non c’è e basta.
Occhio non vede, cuore
benpensante non duole. Degli effetti che produce una loro assunzione
abituale nel lungo periodo, però, si sa poco e niente.
Innanzitutto perché esistono da poco e poi perché vi è da ancora meno
tempo un utilizzo di massa in grado di produrre studi clinici
attendibili. A differenza della marijuana, di cui si conosce
praticamente quasi tutto perché utilizzata da millenni, le droghe di
nuova generazione rappresentano per noi un buco nero.
Nonostante questo, l’esperienza degli
ultimi anni qualcosa ci dice già. Gli effetti collaterali ci sono
eccome, e qualche volta sono pure estremamente gravi. L’abbiamo visto
con i nostri occhi sulla pelle di qualche amico o conoscente: le droghe
sintetiche non ti riducono a essere fisicamente un rottame, non ti
lasciano facilmente identificare come il “tossico” come accadeva per
l’eroina, non ti mandano dritto dritto in comunità. Magari oggi ti fanno
un TSO, finisci in un centro di igiene mentale dove ti riempiono di
psicofarmaci. Nonostante la “faccia pulita”, anche le droghe
sintetiche hanno svolto pienamente il loro dovere e hanno contribuito a
spegnere sul nascere la conflittualità di una generazione convinta di
essere sfuggita all’incubo tossicodipendenza, sicura di avercela fatta solo perché non si bucava.
Poi sono arrivati veloci gli anni 2000, quelli della consacrazione della cocaina come droga di massa. La polverina bianca – che costituiva uno status symbol negli anni ’80 – ora è alla portata di tutti, anche dei più poveri. Se
dovessimo stilare una classifica delle peggiori sostanze, di quelle che
più odiamo, indubbiamente questa sarebbe al primo posto. Perché è la droga-simbolo del capitalismo. Non ti fa meditare, non ti mette in contatto con le parti più profonde del tuo inconscio né facilita la socialità, semplicemente
ti fa diventare aggressivo, ti fa sentire potente, inarrestabile,
superiore agli altri ed estremamente competitivo. Ti trasforma, finché
dura, nel prototipo del perfetto padrone, del maschio vincente.
Gli effetti della cocaina sulla nostra
vita sociale sono disastrosi, chi ha occhi per vedere sa di cosa
parliamo. E’ evidente sul lavoro, in strada, nei locali. Una
massa di individui che passa costantemente da uno stato di euforia e di
superomismo a un altro caratterizzato da ansia e depressione. Prima
pericolosa e poi mansueta e docile ma essenzialmente, in entrambe le
condizioni, prigioniera del proprio individualismo, tagliata fuori da
qualsiasi dinamica di carattere sociale. Esattamente la fotografia di
come i padroni ci vorrebbero: singoli incapaci di vedersi come insieme e impegnati a competere tra di loro.
La consacrazione presso il grande
pubblico, anche se non lo dice più nessuno, è avvenuta nel 2006 per
decreto del governo Berlusconi. La legge Fini-Giovanardi
aveva sostanzialmente equiparato le droghe leggere a quelle pesanti. A
parità di rischio, per i narcotrafficanti diventava molto più
conveniente smerciare cocaina, eroina e droghe sintetiche, meno
ingombranti da trasportare, più facili da occultare e con margini di
profitto superiori rispetto alla marijuana o all’hashish. A quel punto i
prezzi sono diventati ancora più “popolari”, la vendita fatta anche a
piccole dosi, cosicché la fascia d’età dei consumatori si è allargata, e
anche gli adolescenti hanno potuto provare l’ebrezza della droga più
ambita.
La Fini-Giovanardi ha semplicemente aumentato il consumo delle sostanze “pesanti” - che infatti è in costante crescita -, ha
garantito maggiori profitti ai narcotrafficanti e “lavoro” per coloro
che (come la famiglia dello stesso Giovanardi, sarà un caso?) sono
impegnati nel business delle comunità a pieno regime. Non ha
fatto lo stesso trattamento di “favore” ai consumatori, pesantemente
criminalizzati con forti sanzioni, spesso accusati di essere
spacciatori, né tantomeno verso la più bassa manovalanza del
narcotraffico. La Fini-Giovanardi ha fatto nuovamente esplodere le carceri, avendo
fissato tra i 2 e i 6 anni la pena per chi spaccia droghe leggere (ciò
significava non rendere applicabili misure alternative e quindi
spalancare le porte del carcere). Oggi il 40% dei detenuti è in galera
per reati legati alle sostanze stupefacenti. Insomma, stiamo parlando di
una legge che non tocca i profitti né nel campo “commerciale” né in
quello della disintossicazione, una legge utile solo per pochi.
Il colmo si è raggiunto nel 2014 quando una sentenza della Consulta ha dichiarato il provvedimento incostituzionale,
visto che – in barba a qualsiasi principio che sia un minimo
democratico – era stata inserita come emendamento al decreto relativo
alle Olimpiadi invernali di Torino 2006, pur di approvarla velocemente e
senza intoppi! Un vero e proprio macello sotto tutti i punti di vista!
Allora si è tornati alla vecchia legge per passare poi al decreto
Lorenzin, che ha lasciato di fatto inalterato il carattere liberticida e
ottuso che ha caratterizzato sempre la normativa in materia…
Tutto questo giro, questa parentesi sulla nostra storia recente, per dire cosa? Abbiamo visto come le droghe spesso abbiano rappresentato una
risorsa per chi ci comanda (e molto meno, magari, per la nostra
psiche), perché tutto ciò che ci circonda, i rapporti in cui siamo
immersi, le relazioni che intessiamo con sempre più difficoltà, le
condizioni materiali in cui viviamo, si riproducano sempre uguali, esattamente come noi li vediamo oggi.
Allora ci chiediamo – e scusateci se
diremo qualcosa che a molti può sembrare banale – se e come è possibile
pensare, finché il capitalismo è in piedi, a un utilizzo realmente,
profondamente, consapevole delle sostanze, illegali o legali che siano. Se
è vero che il capitalismo si nutre di merci, e ci sfrutta fino al
midollo per produrle, allora l’interesse di quella minoranza che oggi ci
schiaccia sarà sempre quello di diffondere l’uso massivo di questa
merce, fregandosene degli effetti che produce sulla salute, sfruttandone
la particolare dote di “vaccino” che prevenga e combatta qualsiasi
opzione di cambiamento sociale.
Questo ovviamente non significa che
nell’attesa della fine del capitalismo continueremo a sentirci impotenti
e raccogliere le vite distrutte di nostri conoscenti, amici, parenti,
colleghi di lavoro. Da subito dobbiamo combattere e impegnarci per tutelare la nostra salute e liberarci dal controllo repressivo che ci attanaglia
Ecco perché pensiamo che questa questione debba essere messa al centro dell’agenda politica,
non solamente quando qualche ragazzino muore tragicamente dopo una
serata in discoteca. Non ci possiamo permettere il lusso di avere un
atteggiamento ideologico, ma dobbiamo impiegare tutte le nostre energie e
idee per individuare soluzioni immediatamente praticabili:
- lottare per la liberalizzazione delle droghe leggere e la loro completa depenalizzazione, lottare perché la produzione e il loro commercio non diventi occasione di profitto per qualcuno;
- promuovere serie politiche di riduzione del danno,
cioè dare la possibilità ai consumatori di sapere cosa effettivamente
stanno assumendo (attraverso analisi gratuite delle sostanze
acquistate), consigli da parte di personale medico sulle quantità da
assumere, personale sanitario pronto ad intervenire nei luoghi dove è più massiccio il consumo;
- dare la possibilità di
accedere a servizi sanitari gratuiti che monitorino gli effetti delle
sostanze sul proprio corpo, garantire un supporto psicologico oltre che
percorsi di disintossicazione non incentrati sulla costrizione, sulla
colpevolizzazione né tanto meno sulla violenza.
Senza mai stancarci di denunciare che
tutte le droghe, anche quelle legali, sono un’ulteriore chance per i
padroni di tenerci buoni, di controllarci. E poi dobbiamo dire sempre la
verità: l’utilizzo e l’abuso di droghe, alcol in primis, è legato alle condizioni di vita ed in particolare a quelle di lavoro. Lo dimostra l’esperienza diretta di ognuno di noi: più aumenta lo
sfruttamento, l’oppressione e la povertà, tanto più aumenta l’utilizzo
di droghe. Noi invece lottiamo per una vita libera, ricca, indipendente,
fatta di legami, incontri, sperimentazioni, sviluppo collettivo delle
abilità e delle potenzialità che abbiamo come individui sociali…
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