Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.Il che, in buona sostanza, significa che le decisioni delle pubbliche amministrazioni, ed ovviamente in particolare in materia fiscale, sono subordinate ai dettami Ue e, qualora il responsabile di una di esse (di qualsiasi livello) dovesse decidere in modo difforme, potrebbe anche vedersi chiamato dalla Corte dei Conti a rispondere di “danno erariale”. Il richiamo alla Ue è poi ribadito da un inciso nell’art 117 ed un altro nel 119. Da questo poi scaturì la legge applicativa 24 dicembre 2012 n. 243 che rende esecutive le norme fissate a partire dal 2014.
Tutto questo va poi letto insieme alla
trasformazione dell’art. 81 deciso sempre con legge di revisione
costituzionale dell’aprile 2012.
La stesura originaria dell’art. 81 si
limitava a prevedere, nell’ultimo comma, l’obbligo di copertura di ogni
ulteriore legge di spesa oltre il bilancio annuale. Peraltro, questo
obbligo nei fatti non fu mai osservato troppo scrupolosamente.
Poi nel 2012, a seguito dello sciagurato accordo cui abbiamo fatto cenno, l’articolo venne riformulato come segue:
Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale.
Dunque, occorre mettere in relazione le
norme che legano il pareggio di bilancio – ed i limiti di oscillazione
possibili – con le direttive Ue. Di fatto, quella modifica
costituzionale diventa, in questo modo, il “catenaccio” che garantisce
l’accordo intergovernativo del fiscal compact e rende non aggirabili i
limiti al disavanzo, neppure nelle fasi economicamente sfavorevoli come
questa.
Detto in soldoni: se il Governo volesse
“sforare” i limiti fissati, non potrebbe farlo contro le indicazioni Ue,
perché basterebbe un intervento della Corte dei Conti a bloccare tutto.
Ma se anche la Ue (o la Merkel, per essa), in un accesso di
benevolenza, autorizzasse l’Italia a discostarsi dai limiti concordati,
così come Renzi ha chiesto vanamente nella sua visita berlinese,
ugualmente il Governo non potrebbero far nulla, perché a legargli le
mani resterebbero le procedure costituzionali.
Di fatto si tratta di un combinato di
norme assolutamente micidiale che vincola la politica economica del
nostro paese alle decisioni Ue ed il punto più pesante (di cui in questa
campagna elettorale proprio non si sta parlando nemmeno per cenni) è
quello che riguarda il rientro del debito. Gli accordi da cui è nato
l’Euro, prevedono che ogni paese non possa avere un debito superiore al
60% del suo Pil, mentre il nostro debito era al 120% prima del governo
Monti e, dopo i sacrifici, è salito al 130%. La Ue ci ha imposto il
rientro della quota eccedente entro 20 anni. Questo significa un onere
di circa 40-60 miliardi l’anno (la cifra è solo stimabile perché
variando il Pil occorre calcolare anno per anno la cifra in assoluto da
reperire) che si aggiunge agli interessi.
Anche tagliando brutalmente le spese
oltre ogni tollerabilità ed inasprendo la tassazione ordinaria, è
materialmente impossibile fare fronte all’impegno. E le strade che
restano non possono essere che due: l’alienazione di beni pubblici (le
privatizzazioni ovviamente in termini di svendita) ed un prelievo
forzoso. Insomma: gli italiani entrino nell’ordine di idee che ci
aspetta un prelievo forzoso sui risparmi in banca e, con ogni
probabilità, una patrimoniale sulla casa. E neppure è detto che questo
basti.
E dire che gli accordi iniziali che
hanno preceduto il fiscal compact – prima che Monti svendesse il nostro
paese – prevedevano clausole ben più favorevoli per l’Italia, a
cominciare dal criterio di calcolo sul debito. Da un punto di vista
giuridico, peraltro, è vero che l’Italia consente limitazioni della
propria sovranità, ma in condizioni di parità (art. 11 Costit.), mentre
qui siamo gli unici ad aver messo mano alla Costituzione.
Ed allora, concludendo, qui si fa sul
serio: vogliamo il superamento dell’attuale ordine monetario come
sostiene il M5s? Vogliamo una “Europa diversa” che rifiuti l’austerità
del fiscal compact come vuole la Lista Tsipras? Vogliamo anche solo una
politica di bilancio più elastica, come predica Renzi? Per fare tutto
questo il passaggio obbligato è eliminare quelle modifiche
costituzionali volute da un governo al servizio dei poteri forti
stranieri. Ristabilire la sovranità nazionale è il passo preliminare e
qui si vede chi fa sul serio e chi no: Hic Rhodus, hic salta.
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