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20/08/2015

Il punto debole

Sottraendoci alla retorica della “Costituzione più bella del mondo” o a quella opposta della “Costituzione di stampo sovietico”, possiamo dire che  la Costituzione approvata nel 1948 ha mostrato di avere una architettura che ha retto bene alla prova e per oltre mezzo secolo, anche se non sono mancati aspetti discutibili, come il bicameralismo perfetto, l’inutile Cnel, l’articolo 7 sul Concordato, alcune formulazioni non chiarissime in materia di diritti sociali (ad es. il salario “familiare” di cui all’art. 36), ma, nel complesso, si è trattato di aspetti che non hanno inficiato sostanzialmente il funzionamento del modello.

Il punto debole maggiore è stato un altro: l’insufficienza dei controlli. Dell’assenza di controlli giurisdizionali e contabili sui partiti  diciamo in altra parte, qui consideriamo il discorso relativo ai rapporti fra istituzioni.

In primo luogo il Presidente della Repubblica: è comprensibile che la più alta carica dello Stato, per quanto possibile, non venga esposta al vento delle mutate maggioranze parlamentari o all’iniziativa (magari improvvida) di un qualsiasi magistrato, ma la Costituzione “blinda” il Presidente rendendolo, di fatto, imperseguibile per qualsiasi reato. In teoria, il Presidente (durante il suo mandato) risponde penalmente solo per altro tradimento o attentato alla Costituzione. Di fatto, si tratta di due fattispecie assolutamente vaghe ed imprecisate: nel 1964 il Presidente Segni autorizzò il “Piano Solo” del generale Giovanni De Lorenzo che prevedeva anche l’arresto di parlamentari e la loro deportazione. La sinistra accusò il generale De Lorenzo di stare tramando un colpo di Stato, ma, se colpo di Stato si stava preparando, ad esso non era certamente estraneo il Presidente e, dunque, sarebbe stato logico aprire il procedimento per la messa in stato d’accusa, quel che il Pci si guardò bene dal fare, perché sarebbe servito solo a produrre una crisi ad altissima tensione, ma sarebbe stato matematicamente certo che Dc, partiti di centro e destre monarco-fasciste avrebbero bocciato la proposta.

Nel 1969 il Presidente Saragat ebbe ripetuti interventi che andavano un po’ al di là delle sue attribuzioni (ad esempio la dichiarazione a proposito della morte dell’agente Annarumma) e minacciò più volte lo scioglimento delle Camere per modificare la maggioranza a danno delle sinistre e non fu affatto chiaro il suo ruolo nelle vicende che culminarono nella strage di piazza Fontana: fu attentato alla Costituzione?

Nel 1978, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, fu indotto alle dimissioni anticipando la richiesta in questo senso dei partiti per una vicenda corruttiva, cui risultò successivamente estraneo, in quel caso non si configurava l’attentato alla Costituzione, ma, nonostante l’imperseguibilità sancita dalla Costituzione, il Presidente dovette abbandonare la sua carica.

Durante tutto il suo settennato, Cossiga entrò ripetutamente in conflitto con il governo, il Csm ed il Parlamento ed in forme quantomeno irrituali, il Pci ne chiese la messa in stato d’accusa, sostenendo (non infondatamente) che l’attentato alla Costituzione è un concetto che investe anche la modifica degli equilibri costituzionali, anche quando non ricorrano atti di violenza. Ci fu attentato alla Costituzione?

Ma, soprattutto, il Presidente Giorgio Napolitano ha tentato per due volte di seguito di promuovere un processo di revisione costituzionale assolutamente non conforme all’art. 138 della Costituzione, ha usato il potere di scioglimento (o non scioglimento) del Parlamento con assoluta discrezionalità, ha iniziato a cercare il successore di Berlusconi a Palazzo Chigi sin dal mese di giugno 2011, ben cinque mesi prima delle dimissioni del Presidente in carica, ha autorizzato, anzi invitato ad avviare la riforma della Costituzione un Parlamento delegittimato dalla dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale con cui era stato formato, ma quando il M5s ne chiese la messa in stato d’accusa, il Pd (erede di quello stesso Pci che aveva sostenuto la messa in stato d’accusa per Cossiga, per comportamenti sicuramente meno rilevanti di questi) votò contro (insieme a Forza Italia e Sel, per la verità).

Ed, allora, salvo che per l’arrivo dei carri armati, in cosa consiste l’attentato alla Costituzione? E’ evidente che l’attuale assetto costituzionale lascia al Presidente eccessiva discrezionalità, ad esempio, in materia di scioglimento delle Camere, e ciò non solo nei casi in cui decida positivamente per scioglimenti anticipati, sia, ancor più, nei casi in cui dovrebbe essere obbligato a farlo (ad esempio, di fronte ad una dichiarazione di incostituzionalità del sistema elettorale, che esigerebbe una rilegittimazione del Parlamento attraverso il voto, oppure di fronte ad un Parlamento nel quale, in due anni, quasi un quarto dei parlamentari cambiano partito, per effetto di scissioni, passaggi plurimi di gruppo, espulsioni ecc). E, dunque, sarebbe auspicabile una normativa più stringente, magari per legge costituzionale, che fissi limiti ed obblighi meno aleatori.

In secondo luogo, è evidente che aver affidato il potere di messa in stato d’accusa al Parlamento è stata una scelta infelicissima, che non ha assolutamente funzionato. E’ palese che un ordinamento che prevede il voto parlamentare di fiducia al governo e si basa sulla disciplina di partito degli eletti, la decisione della messa in stato d’accusa subisce un immediato processo di politicizzazione che non ha nulla a che fare con la valutazione dei comportamenti di merito. Di fatto Il Presidente ha da temere qualcosa solo da un Parlamento in cui prevalga una maggioranza di colore ostile ed, anche in questo caso (come con Scalfaro nel breve periodo del primo governo Berlusconi o Ciampi nella legislatura 2001-2006) dovrebbe incorrere in comportamenti più che scorretti per rischiare davvero. Ma l’idea di un organo terzo, appositamente previsto, non si affacciò mai nei dibattiti della Costituente.

Anche il governo, nel nostro ordinamento, gode di una iper protezione, sia perché a decidere l’eventuale messa in stato d’accusa dovrebbe essere lo stesso Parlamento che gli concede la fiducia, sia perché l’ordinamento accorda ai ministri una larga discrezionalità (di cui si avvalse Cossiga, nel 1965, nella sua difesa del ministro Trabucchi, per gli scandali tabacchi e banane). E tanto meno sono risultati efficaci strumenti come l’interrogazione o l’interpellanza, cui il governo, in genere, si cura poco di rispondere. Le stesse commissioni di inchiesta non hanno mai dati grandi risultati, se non sul piano delle acquisizioni conoscitive per fonti documentali o dichiarazioni degli auditi che, però, hanno sempre portato a relazioni di maggioranza e minoranza pur basate sulle stessissime fonti, e la cosa non sorprende, perché la verità non si mette ai voti: un fatto è vero o no a prescindere dalle interpretazioni necessariamente tendenziose di giudici palesemente interessati ad affermare una tesi politico piuttosto che un’altra. Da ultimo, anche l’esperienza delle Commissioni parlamentari di vigilanza, sulla Rai ed, ancor più, sui servizi di informazione e sicurezza non hanno mai dato risultati apprezzabili sul piano dei comportamenti concreti: la Rai è restata terreno di spartizione fra le forze politiche, in spregio a qualsiasi valutazione di ordine professionale e, quanto ai servizi, l’esistenza del comitato parlamentare di vigilanza non ha impedito né lo scandalo Sisde del 1992, né lo scandalo Telecom del 2007. Il far play parlamentare prevede, per prassi, che le presidenze delle due commissioni siano affidate alla presidenza di un parlamentare dell’opposizione, ma la stessa prassi prevede un fair play per cui l’opposizione si opponga sino ad un certo punto. Dove non arriva la brutale logica dei numeri, provvede l’inevitabile legge dell’equilibrio parlamentare, per cui un presidente di commissione non può comunque spingersi oltre certi limiti senza innescare una crisi istituzionale che andrebbe al di là della questione di merito. Il punto è che la funzione di controllo parlamentare aveva un senso all’origine, nei sistemi delle monarchie costituzionali e non parlamentari, quando il Parlamento non aveva il potere di concedere la fiducia ed aveva gruppi parlamentari legati da una debole disciplina. Ma perde completamente di senso un organo investito di poteri di indirizzo politico (fiducia al governo, attività legislativa, mozioni di indirizzo ecc.) che non può istituzionalmente svolgere una efficace azione di controllo e garanzia.

E lo stesso Parlamento ha goduto, a sua volta, dello stesso regime di controllo puramente formale sancito dall’autodichia: la proclamazione degli eletti, è compito di commissioni espresse dallo stesso Parlamento e si è visto cosa significhi questo in occasione della dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale, nel dicembre 2013, quando il lavoro di verifica e proclamazione degli eletti da parte della Commissione era ancora in corso: la decisione della Corte Costituzionale poneva il problema dell’eccessivo premio di maggioranza che era abolito e con effetto immediato, pertanto se ne sarebbe dovuta trarre la conseguenza rettificando la distribuzione dei seggi e, se per i parlamentari già proclamati sarebbe stato possibile soprassedere e lasciare le cose come stavano, per quelli ancora da proclamare sarebbe stato doveroso ridistribuire i seggi, ma la questione, appena affacciatasi, venne immediatamente sepolta dalla commissione nella quale, ovviamente, era in maggioranza... la maggioranza. Il risultato è che un Parlamento in cui la maggioranza è stata espressa dal 29% del corpo elettorale e che si è immediatamente divisa con il passaggio all’opposizione di Sel – anche per effetto dei passaggi di gruppo – ha un partito che dispone di oltre 300 seggi alla Camera e sta procedendo, a colpi di maggioranza, alla più ampia revisione costituzionale mai vista.

Quanto al potere di autorizzare la magistratura a procedere nei confronti di parlamentari, non è neppure il caso di dire tanto è noto l’abuso che se ne è fatto, con reciproci scambi di favori fra maggioranze ed opposizioni. Anche qui, il controllato ha eletto il suo controllore con i risultati che sarebbe stato logico attendersi sin dall’inizio.

Ma anche la magistratura ha goduto del medesimo trattamento: la Costituzione italiana è l’unica, nel Mondo, che concede poteri vastissimi  (assunzioni, distribuzione degli incarichi e, soprattutto, funzione disciplinare) ad un organo di autogoverno della magistratura, maggioritariamente composto da eletti della stessa magistratura. Anche qui siamo nei limiti di una pur parziale autodichia, che affida ai giudicandi il potere di eleggere i propri giudici e, per sovrappiù, gli affida il potere di reclutamento.

Ed, infine, non poteva mancare la pubblica amministrazione, con organi disciplinari formati tutti per via interna e talvolta non formati affatto (ad esempio, sarebbe interessante sapere in quante amministrazioni siano effettivamente formati i consigli di disciplina che la normativa prevede) e schermata da una giustizia amministrativa, spesso composta da personale che proviene dalla stessa Pubblica amministrazione, dotata di un proprio organo di autogoverno e separata dalla magistratura ordinaria (una vera e propria giurisdizione speciale, come era quella dei tribunali militari).

Infine i servizi di informazione e sicurezza, schermati da ogni possibile intervento giudiziario, dalla cortina impenetrabile del segreto di stato, ribadito e rafforzato dalla riforma-beffa del governo Prodi (legge  3 agosto  2007,  n.  124  e successive), sottratti anche ad un vero controllo parlamentare e di fatto responsabili solo di fronte al Presidente del Consiglio che, peraltro, deve basarsi solo sulle informazioni offertegli dagli stessi servizi.

Di fatto, la scelta del Costituente (cosciente o involontaria, conta poco stabilirlo) è stata quella di favorire una corporativizzazione di ogni potere: si è costituita la corporazione della società politica (suddivisa per ordini: quello dei parlamentari di maggioranza ed opposizione, quello dei governanti), quella giudiziaria, quella amministrativa (con la corporazione speciale dei servizi di informazione e sicurezza).

E dunque una architettura adattissima alla edificazione di un “potere irresponsabile” che è stato il vero tarlo che ha corroso la Prima Repubblica, portandola alla sua fine ingloriosa nella melma di Tangentopoli.

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