L'Agenzia Bloomberg valuta a più del 45% (secondo il PC russo, oltre il 50%) sul totale delle entrate russe, quelle derivanti dal petrolio e sembra dato ormai per assodato che il costante calo del prezzo del greggio negli ultimi anni sia strettamente legato alle scelte geopolitiche statunitensi che, intrecciate sul fronte mediorientale con quelle dell'Arabia Saudita, accompagnano la strategia yankee di annichilimento della Russia.
La stessa Bloomberg presagiva nelle settimane scorse il crac economico russo nel caso le quotazioni del greggio precipitino sotto i 25$ al barile e problemi con le riserve valutarie di Mosca già intorno ai 40$. Ma la gas-petrolifera Lukojl (la più grande impresa non statale russa: con profitti netti di 5 miliardi di $ a fine 2014, detiene il 2% dell'estrazione mondiale di petrolio e l'1% delle riserve mondiali) si è detta “attrezzata” a lavorare anche in condizioni di prezzo inferiore ai 30$, considerando come limite quello di 24$.
Ora, se è difficile dire quanto le stesse previsioni catastrofiche di Bloomberg facciano parte della suddetta strategia statunitense, è però probabile che qualche campanello d'allarme sia suonato a Mosca quando, poche settimane fa, il greggio Brent era sceso a 43$ al barile, per poi quasi immediatamente risalire a poco meno di 50$. In ogni caso, le quotazioni attuali, che stentano a oltrepassare la soglia dei 50$ sono ben lontane dagli oltre 146$ del 2008 o anche dai 100$ del 2013 e del 2014 e la previsione generale per il 2016 è di un prezzo intorno ai 53$.
Dunque, anche al Ministero per l'energia russo nessuno si attende, in tempi brevi o medi, un ritorno ai prezzi di due anni fa. Lo ha detto chiaro e tondo (nell'ambito dle Forum economico orientale svoltosi a Vladivostok dal 3 al 5 settembre) il Ministro per l'energia Aleksandr Novak, secondo il quale “una giusta quotazione è quella di 50-60$ al barile; in prospettiva, 70$”. Secondo Novak, le oscillazioni intorno ai 50$ rivestono carattere congiunturale e sono legate a fattori speculativi. A parere del direttore di “Gazprom-petrolio”, Aleksandr Djukov, le quotazioni possono rimanere ai livelli attuali o addirittura leggermente minori anche per alcuni anni. Finché i paesi Opec non invertiranno la loro politica, con un'offerta, come ora, di gran lunga superiore alla domanda, ha detto Djukov, “i prezzi rimarranno molto verosimilmente vicini ai 40-50$ al barile”.
Dunque, al momento, nella stesura del bilancio federale, il governo si orienta su tali grandezze di entrata, pronto a correggerle in caso di variazione negativa di durata maggiore.
Il vice Ministro delle finanze Aleksej Moiseev, sullo sfondo di una relativa stabilizzazione del prezzo del greggio, ha detto di attendersi una rafforzamento del rublo, se non entro gli ultimi mesi del 2015, quantomeno nella prima metà del 2016. Tuttavia, ha detto, la situazione sul mercato valutario, come in quello petrolifero, muta molto rapidamente; “Non abbiamo un'idea sicura su dove si assesterà il prezzo del petrolio a breve scadenza. Attualmente, c'è un'alta correlazione tra dinamica del corso del rublo e prezzo del greggio. Per poter pronosticare qualcosa con cognizione di causa, occorre che la situazione sul mercato del petrolio si stabilizzi almeno per alcune settimane”. La Tass ricorda come la caduta del rublo sia iniziata nella seconda metà dello scorso anno: allora la moneta russa subì una caduta di 2,2 volte nei confronti del dollaro. A febbraio il rublo cominciò a risalire e a maggio aveva recuperato un 30% (49 rubli per 1$), per poi tornare a scendere fino agli attuali 68 rubli circa per 1$.
Cercando quindi canali diversi di espansione, per sottrarsi almeno in parte alla stretta delle sanzioni occidentali e dicendosi orientato a sviluppare la collaborazione con il mondo orientale, Vladimir Putin, lo scorso 3 settembre, durante la visita a Pechino per il 70° della Vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, ha concluso una trentina di accordi economici russo-cinesi, per un valore di circa 30 miliardi di $. Per una cifra pressoché simile, quasi 80 accordi sono stati sottoscritti poi nel corso del Forum economico internazionale di Vladivostok. Inoltre, a dispetto proprio delle sanzioni, si è arrivati alla firma dell'accordo per la realizzazione del gasdotto “North stream-2”, il raddoppio del metanodotto che arriva in Germania passando per il mar Baltico: le compagnie che parteciperanno all'accordo di azionariato insieme alla russa Gazprom Shell, OMV, E.On, Engie e Basf. Dopo l'abbandono del progetto del “South stream” a causa del conflitto ucraino, l'accordo per i vari rami del “Turkish stream” e ora il raddoppio del percorso nordico costituiscono certo una carta vincente per Mosca.
Molto preoccupante per alcuni. Arsenij Jatsenjuk e il premier slovacco Robert Fico, si sono spesi ieri in appelli disperati alla UE perché ostacoli la realizzazione del progetto baltico: agitando lo spauracchio per l'Europa della fine di sicure forniture lungo il più breve percorso ucraino e slovacco, si angosciano in realtà per i mancati introiti (rispettivamente 2 miliardi di $ e alcune centinaia di milioni di euro) derivanti dalla fine del transito attraverso i loro territori.
E alle attese in fondo non così pessimistiche in relazione alle entrate petrolifere, si accompagnano ora quelle altrettanto fiduciose che fanno seguito alla scoperta di “Zohr”, l'esteso giacimento di gas fatta da ENI al largo delle coste egiziane. A Gazprom non nutrono grossi dubbi di poter continuare ad assicurare le forniture di gas russo all'Europa, dopo che il giacimento comincerà ad essere pompato prima all'Egitto e poi ai paesi importatori. “850 miliardi di metri cubi, equivalenti a 5,5 miliardi di barili di petrolio, sono molti” dicono a Gazprom, “ma non è una quantità shock. Tanto per fare un confronto, nel 2014 Gazprom ha esportato in Europa 150 miliardi di m3 di gas”. Inoltre, l'esportazione di gas egiziano comincerà non prima di tre anni. A Mosca sostengono che le valutazioni degli esperti occidentali di una forte minaccia per le esportazioni russe sono esagerate. “Per la regione la scoperta è effettivamente grandiosa”, dice il vice direttore del Fondo nazionale per la sicurezza energetica Aleksej Grivač; “ma dubito che possa cambiare la bilancia globale”. “Se supponessimo che l'Europa” ha detto l'analista Valerij Polkhovskij, “intenda sostituire tutto il gas che importa adesso da Gazprom, con questa nuova scoperta, allora il nuovo giacimento basterebbe meno di cinque anni. Dunque, serie minacce a lunga scadenza per le esportazioni russe non ci sono” ha detto, aggiungendo che “in generale Gazprom opera con contratti a lunga scadenza.
Ci sono poi gli investimenti nelle infrastrutture, negli impianti di liquefazione e nei gasdotti dall'Egitto all'Europa: “indicativo l'esempio della Lituania” ha detto Polkhovskij, “che ha realizzato l'impianto di liquefazione per ricevere il gas norvegese, che però le costa 580$ al m3, contro i 370 $ di quello russo”.
Pare dunque che non tanto l'attacco valutario e commerciale esterno debba costituire, per ora, la principale preoccupazione di Mosca. Sono semmai alcune cifre, risultato invece proprio la politica liberale del governo – indirizzata, come affermano i comunisti russi, al sostegno dei grossi gruppi oligarchici – che dovrebbero essere considerate. Come ad esempio i 10 trilioni di rubli – dei 16 ottenuti nel 2014 dalle esportazioni energetiche – andati a gruppi stranieri, contro i 6 soltanto finiti nelle casse dello stato; i 100 (secondo alcuni, 150) miliardi di $ all'anno di capitali in fuga e il calo di oltre 220 miliardi di $ delle riserve valutarie nel 2014; a fronte di riforme pensionistiche ”all'occidentale”, di mancati finanziamenti a settori fondamentali quali scienza, istruzione, sanità. Tutti processi che, come dicono i comunisti, “non è più possibile spiegare con la caduta del prezzo del petrolio, né con le sanzioni, né con gli attacchi occidentali all'economia russa. E' piuttosto in atto una mastodontica speculazione valutaria interna, spalleggiata da Ministero delle finanze e Banca centrale, con l'assenso del governo”.
La lotta di classe nella Russia di Putin.
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