Contrariamente a quanto i loro nomi e il modo in cui funzioneranno potrebbe suggerire, KAEC, PABMEC, KEC e JEC non sono società per azioni. Le quattro sigle – dove EC sta per Economic Cities – sono infatti parte di un ambizioso disegno urbanistico e territoriale annunciato dal re saudita, Abdullah bin Abdulaziz al-Saud, nel 2005: sei nuove città per rispondere alle principali sfide economiche e demografiche del regno. Tra queste, la King Abdullah Economic City (KAEC) – fulcro del progetto e aspirante metropoli da due milioni di abitanti – si prepara a diventare il principale porto commerciale del Mar Rosso, oltre che rivale di Dubai per il titolo di capitale turistica e finanziaria nella regione. Ma con il prezzo del petrolio destinato a scendere ancora, molti si chiedono se il progetto da 100 miliardi di dollari non rischi di gravare ulteriormente sulla già elevatissima spesa pubblica di Riyadh.
L’Arabia Saudita, membro più influente all’interno dell’OPEC e proprietaria del 18% delle riserve petrolifere globali, è il primo esportatore al mondo di petrolio; dal quale ricava l’80% delle proprie entrate complessive per un valore di circa 130 miliardi di dollari (2015). Per ottant’anni, i proventi del greggio – che a partire dagli anni ’30 trasformarono un’economia rurale in una delle maggiori potenze economiche al mondo – hanno permesso alla casa regnante degli al-Saud di sviluppare un sistema economico altrimenti insostenibile, nel quale ingenti sussidi statali e ampi programmi di assistenza sociale hanno garantito benessere e stabilità ai cittadini, esentandoli al contempo da ogni forma di tassazione.
Tuttavia, nonostante le stime statunitensi confermino che le riserve petrolifere del paese non si esauriranno prima dei prossimi settant’anni, la completa dipendenza di Riyadh dal settore petrolifero – e inevitabilmente dalle oscillazioni del suo mercato –, accompagnata dal timore che un aumento del consumo interno possa costringerla a importare greggio già dal 2030,obbliga il regno saudita a intraprendere una ristrutturazione sostanziale della propria economia, al fine di differenziare le proprie fonti di guadagno e rendersi meno dipendente dal settore petrolifero. Il crollo del greggio a 30 dollari al barile non fa che rendere più urgente tale necessità; mentre il recente annuncio che alcune quote di Aramco – compagnia di bandiera responsabile per la quasi totalità delle risorse energetiche del paese – potrebbero essere aperte a partecipazione privata conferma la portata delle riforme in atto.
In questo quadro, le Economic Cities non rappresentano dunque soltanto un ambizioso progetto di sviluppo urbanistico e territoriale, ma anche – e soprattutto – lo strumento attraverso cui Riyadh spera di diversificare la propria economia; alleggerendo una spesa pubblica sempre meno sostenibile e incentivando una maggiore partecipazione privata soprattutto dall’estero.
Come si legge infatti in un documento ufficiale della Saudi Arabia General Investment Authority (SAGIA) – l’agenzia incaricata di stimolare gli investimenti stranieri nel regno – le nuove Economic Cities si presenteranno come centri estremamente favorevoli all’attività privata, dove gli investitori saranno completamente padroni e responsabili delle proprietà immobiliari, in cambio di una tassazione minima. In altre parole – e ciò riguarda soprattutto la King Abdullah Economic City – riproducendo un modello già attuato a Dubai o Singapore, Riyadh mira a dotarsi del proprio paradiso degli investimenti. Dove chilometri di lussuosi resort e spiagge bianche si estenderanno all’ombra di uno scintillante distretto finanziario, mentre il più grande porto del Mar Rosso sarà direttamente collegato a un ampio ‘villaggio del lavoro industriale’. Il tutto incorniciato dalla promessa di attuare uno sviluppo urbano ‘sostenibile’ e di promuovere norme sociali più distese di quanto la rigidità dell’Islam wahhabita non imponga sul resto del regno.
Così facendo, nonostante non sia ancora chiaro come la King Abdullah Economic City funzionerà nel concreto, è probabile che – se il progetto sarà completato con successo –KAEC diventerà un’area a statuto speciale, dove le leggi saranno scritte da un’autorità straordinaria, già costituita su decreto reale (Economic Cities Authority), mentre un CEO – e non un sindaco – sarà incaricato di implementarle. Come questa struttura si tradurrà su tutto ciò che esula dalla vita prettamente economica di KAEC rimane tuttavia una delle maggiori incognite del progetto.
Inoltre, se il controverso rapporto tra liberalizzazione economica e dei diritti si presenta come la principale sfida sociale per le Economic Citiese il regno saudita – incidendo anche sul rischio che i capitali stranieri possano continuare a preferire le più aperte Doha, Dubai o Beirut – anche il potenziale economico dell’aspirante metropoli resta tutt’altro che scontato.
Nel 2006, l’apertura del cantiere sulle coste del Mar Rosso, a nord di Jeddah, incontrò l’entusiasmo degli investitori sauditi, con 10 milioni di partecipazioni per un valore di 1.87 miliardi di dollari. Oggi, a dieci anni dall’inizio del progetto, KAEC – l’unica tra le sei città, la cui costruzione è stata seriamente avviata – ospita solo 5.000 abitanti, per lo più addetti ai lavori, a dispetto dei due milioni inizialmente prefissati per il 2035. E mentre gli investimenti stranieri hanno subito un sostanziale rallentamento a seguito della crisi finanziaria del 2008, molte sezioni del Master Plan rimangono ancora coperte di sabbia.
Come giustamente osservato da alcuni analisti, nonostante Fahd al-Rasheed – responsabile del progetto – ricordi come KAEC sia interamente finanziata e sviluppata da capitali privati, il successo di questi ultimi dipende in buona misura dalla capacità di Riyadh di garantire energia a basso costo. Capacità sempre più ostacolata dal crollo del prezzo del petrolio e da una spesa pubblica folle che ha già dovuto ridurre parte dei sussidi per far fronte al costo della guerra in Yemen.
Secondo il governo saudita, KAEC e le altre Economic Cities sono dunque la risposta a tutte le maggiori sfide del paese: diversificazione dell’economia, maggiore indipendenza dal mercato petrolifero, sviluppo del settore privato, problema degli alloggi e disoccupazione. Ma mentre il sito ufficiale del progetto presenta la futura metropoli come un modello di sostenibilità sociale, economica e ambientale, simbolo di una nuova Arabia Saudita, è legittimo domandarsi se Riyadh sarà in grado di sostenerne lo sviluppo fino a quel giorno.
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Sarebbe anche legittimo domandarsi se il percorso intrapreso da Riyadh, ovvero demandare la creazione di benessere socio-economico-ambientale all'investimento privato, abbia davvero senso... in questo caso, però toccherebbe tirare in ballo la politica.
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