La “guerra alla droga” è lo strumento politico attraverso cui gli
Stati Uniti mantengono il controllo amministrativo ed economico di
alcuni Stati dell’America Latina e centrale. Non è una lotta del “bene
contro il male”, soprattutto laddove il primo è rappresentato dagli Usa
o, peggio ancora, dalle sue particolari agenzie repressive (Cia, Dea,
Nsa); l’obiettivo non è quello di estinguere il problema, sia perché
questo è il prodotto di una domanda incontrollabile dei paesi
occidentali, sia perché droga e narcos costituiscono
privilegiati strumenti di controllo di territori e dinamiche sociali da
utilizzare come “agenti di prossimità”; è, infine, una questione
eminentemente politica e non semplicemente criminale, d’ordine pubblico,
militare o in qualche modo tecnica: è politica perché deriva da
specifiche cause sociali che la determinano; perché è prodotto diretto
degli accordi neoliberisti di libero scambio tra paesi subalterni
all’economia Usa; perché serve ai politici locali per costruire
legittimazione che poi riversano contro le popolazioni povere
dei rispettivi contesti e per facilitare gli accordi di libero scambio
di cui sopra. Sebbene scomparsa dai radar dei media occidentali, la
lotta alla droga costituisce uno dei più rilevanti ambiti di gestione
imperialista dei territori. In questi anni è soprattutto il mondo della
cultura di massa ad essersene occupata, con linguaggi e obiettivi
differenti, a volte opposti. E’ interessante capire come avviene il
racconto della “guerra alla droga”, alla luce di alcuni specifici lavori
usciti in questo anno, che contribuiscono a dare una panoramica degli
interessi e delle sensibilità sul tema in questione.
Dei due imprescindibili romanzi di Don Winslow (qui e qui)
ce ne siamo occupati tanto in passato e di recente. Al di là del
livello letterario, molto alto, costituiscono dei lavori capitali perché
rompono uno schema narrativo sia giornalistico che politico altamente
tossico e pacificante: secondo tale visione, i cartelli della droga
costituivano il sottoprodotto di economie povere in mano a signori
locali che gestivano un’economia informale illegale, economia capace di
condizionare la politica locale in maniera anche molto incisiva e che
creava disturbi al corretto sviluppo economico di questi Stati e delle
loro relazioni con gli Usa. La conseguenza è che ad un certo punto gli
Stati Uniti dichiarano guerra al narcotraffico durante la presidenza
Nixon, mettono in campo uomini e finanziamenti, ma gli apparati onesti
targati Usa si scontrano con la corruzione delle società al sud del Rio
Bravo fallendo l’opera di rimozione definitiva del problema.
Lo schema è
manicheo nella sua contrapposizione tra bene (la Dea, e più in generale
la politica di fondo degli Usa, anche quando viene criticata) e male
(le società, nel loro complesso, del centro e sud America); è impolitico
laddove rimuove tutte le cause sociali che producono l’economia della
droga; e mira, infine, a colpevolizzare le società latinoamericane tutte
invariabilmente corrotte, e l’unico sogno degli uomini onesti lì
residenti consiste nella fuga verso gli Usa alla ricerca della tanto
agognata “carta verde”. L’unica onestà possibile coincide coi valori
statunitensi. Don Winslow capovolge la questione. Non esiste bene e
male: l’economia narcotrafficante è il prodotto di precise scelte
politiche degli Stati Uniti, e le agenzie preposte al contrasto sono
corrotte tanto quanto le politiche nazionali degli Stati
latinoamericani; lo scontro è tra due mali, e soprattutto – qui sta
l’importanza dei lavori dell’autore newyorkese – anche l’agente onesto è
costretto a corrompersi perché inserito dentro una dinamica di per sé
corrotta potremmo dire ontologicamente; soprattutto ne Il potere del cane, Winslow
traccia l’origine del commercio illegale, le politiche agricole imposte
dagli Usa, le ragioni sociali dello sviluppo del mercato della droga,
ed è lì che inserisce la sua critica sociale e politica più rilevante,
legando cioè il fenomeno alle cause economiche che lo determinano.
Nel 2015 sono usciti però altri due lavori che affrontano la questione. La serie tv prodotta da Netflix, Narcos, che
ha spopolato in tutto il mondo ed è stata evento mediatico anche in
Italia, che ha portato le vicende dei narcotrafficanti al grande
pubblico. E il libro di Fabrizio Lorusso, Narcoguerra, edito da
Odoya nel giugno dello scorso anno, anche questa opera capace di
raggiungere il grande pubblico nonostante i mezzi chiaramente più
ristretti tanto di Netflix quanto di Winslow. Si tratta di due
lavori agli antipodi, che descrivono bene la varietà di linguaggi e di
schemi mentali ancora persistenti sul fenomeno.
Narcos racconta della storia di Pablo Escobar. Sebbene
quindi ambientato in Colombia e concentrato sulle vicende colombiane, si
propone di parlare, attraverso l’esempio particolare, della vicenda
droga nel suo complesso. E’ in tal senso allora che va affrontato e su
cui bisognerebbe riflettere. La serie è il concentrato più plateale del
manicheismo deviante imposto dalla narrazione liberale-liberista del
fenomeno droga. La Dea, l’attività diplomatica statunitense e, per
estensione, l’intera politica americana di lotta alla droga, sono
inequivocabilmente il bene. Sono il bene soprattutto laddove
vengono impercettibilmente criticate. Ogni critica è su aspetti
superficiali, irrilevanti rispetto al quadro generale: il modo di
condurre un’operazione; l’atteggiamento reprensibile di questo o quel
poliziotto; le lungaggini burocratiche che impediscono azioni veloci ed
efficaci; e via dicendo. Gli eroi sono gli agenti Usa, il bene risiede
nei valori americani della libertà e del rispetto della legge, gli
agenti della Dea novelli Clint Eastwood magari un po’ bruschi nei modi
ma, diamine, contro i signori della droga non possiamo certo badare alle
formalità giuridiche. Di converso, il male è la società
latinoamericana. Attenzione, non Pablo Escobar, con cui, come in ogni
pessimo lavoro che si rispetti, si arriva ad “empatizzare”. Escobar è,
implicitamente, uno che “ce l’ha fatta”, ricco perché intelligente,
arguto, coraggioso. E’ un criminale, ma gli si rende l’onore delle armi.
Quell’onore che invece viene recisamente negato alla società colombiana
nel suo complesso. La povertà è colpa della politica locale nonostante
gli aiuti Usa. Soprattutto, nessuna liberazione è possibile senza
l’aiuto Usa. Lo scimmiottamento della guerra rivoluzionaria delle Farc
supera ogni decenza anche agli occhi di un onesto liberale: i
combattenti sono pedine dei narcotrafficanti, al più idealisti pronti a
vendersi per qualche dollaro di mancia, al soldo e al servizio degli
interessi narcos, studentelli a cui piace l’avventura e che finiscono
male per stupidità propria. I più pragmatici appena passano
dalla parte dei buoni chiedendo un bel visto per gli Usa e tanti saluti.
La chiesa colombiana è una sezione dell’internazionale marxista,
proto-terrorista, fiancheggiatrice della violenza e, in ultima analisi,
degli stessi narcotrafficanti.
Ma non mancano riferimenti europei. A
smistare la droga in Spagna ci pensa l’Eta, organizzazione terrorista
narcotrafficante dedita al taglieggiamento interno e all’economia
criminale verso l’estero: ad un certo punto, quando a Escobar servono
delle bombe, viene chiamato direttamente dalla Spagna un importante
membro della stessa Eta che, ovviamente in cambio della cocaina, gliene
fabbrica a profusione. I politici colombiani invece si dividono in due: i
corrotti, al soldo dei narcotrafficanti, e che celano il loro
tornaconto personale ammantandolo di retorica antimperialista; e gli
onesti, tali perché diretti dall’ambasciata Usa, di cui assecondano ogni
ingerenza. Un’opera talmente degradante che non dovrebbe trovare
commento se non fosse che, proprio perché fatta secondo i canoni
dell’estetica mainstream, rischia di produrre immedesimazione e coinvolgimento emotivo e dunque politico
in larghe fasce di popolazione, persino di sinistra, che
introietterebbero inconsciamente un chiaro messaggio politico
reazionario. La serie è sponsorizzata, recensita, promossa, veicolata,
da numerose testate trasversali, da Repubblica al Fatto Quotidiano. Va
allora smontata in ogni dove, criticata senza cedimenti, perché si
tratta dell’ennesima operazione massmediatica che veicola un messaggio
culturalmente disarmante. Oltretutto, è pure di pessima fattura e
recitata male.
Il lavoro di Fabrizio Lorusso è invece uno strumento indispensabile
per comprendere le caratteristiche della guerra alla droga in Messico.
E’ un’opera davvero unica nel panorama giornalistico italiano, capace di
ibridare generi narrativi differenti in funzione di una comprensibilità
del problema davvero a 360°: articoli e inchieste giornalistiche,
racconti a cavallo tra realtà e fiction, interviste, documenti. La
somma, lungi dal cedere all’eclettismo narrativo, è invece in grado di
svelare un processo storico. E’ un’opera che va letta insieme ai romanzi
di Don Winslow, per interpretare correttamente tutti i passaggi
narrativi ma reali descritti nei due libri. Lorusso vive in Messico,
quindi sa di cosa parla. E’ anche un atto di coraggio, perché
generalmente chi accende fari sull’argomento, in Messico, trova la
morte. Dal 2001 al 2011 la guerra civile messicana ha fatto 100.000
morti, più del doppio invece i desaparecidos e migrati
oltrefrontiera. Cifre da contesto mediorientale o africano, da vera e
propria guerra tra opposti eserciti. Gli eserciti concorrenti non sono
però quelli della Dea e dei cartelli, ma della Dea e dei cartelli contro le popolazioni locali, oltre che fra di loro per il controllo dei territori.
Lorusso individua le ragioni sociali del narcotraffico:
“Le politiche aperturiste applicate dagli anni Ottanta e Novanta
in poi in America Latina, in particolare i trattati di libero commercio
siglati con gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Cina in condizioni di
asimmetria, hanno favorito solo alcuni settori dell’economia, mentre
hanno penalizzato le masse di piccoli agricoltori che, quindi, hanno
trovato nella coca, nell’oppio e nella marijuana delle alternative di
sopravvivenza”.
Non c’è qui una “giustificazione sociale” del problema droga. C’è
un’analisi della origini politico-economiche. I contadini poveri dei
paesi meridionali, sudamericani quanto globali, non potevano reggere i
livelli di competizione e di produttività delle economie agricole
sovvenzionate dagli aiuti di Stato di Stati Uniti e Unione europea.
Liberando ogni vincolo economico, doganale, statale, alla produzione, i
contadini messicani si trovavano a competere direttamente coi i giganti
del comparto alimentare Usa, che ne determinarono il fallimento. A quel
punto le masse contadine messicane si sono trovate costrette al ricatto
di lavorare nelle maquiladoras che producevano per le aziende
Usa, o cedere all’economia criminale, che certamente garantiva maggiori
guadagni nonché protezione. La causa dell’economia criminale va
ricercata allora nei trattati di libero scambio, esattamente come quello
che vorrebbero approvare tra Stati Uniti e Unione europea, il TTIP. Ma
l’autore non si ferma qui, centrando la radice politica per cui la lotta
alla droga è una guerra senza possibili vincitori perché in realtà a
nessuno interessa la vittoria:
“La battaglia contro le droghe rappresenta un affare sostanzioso
per gli Usa ma non per i paesi che ne sopportano il peso sociale, umano
ed economico: la droga a nord e i morti a sud. Le armi americane
invadono il mercato e in America Latina finiscono in mano a narcos,
poliziotti, gruppi di autodefensa e paramilitari. La “war on drugs”,
lanciata da Nixon nel 1971 e ripresa da tutti i suoi successori alla
Casa Bianca, è un potente discorso di legittimazione e uno strumento
ricorrente nella politica estera statunitense, specialmente nei
confronti del Latinoamerica, e da quasi mezzo secolo serve a
giustificare azioni d’ingerenza politica, diplomatica, militare ed
economica. E’ l’hard power della cocaina legato al soft power di
Breaking Bad”.
Il piano politico è però multilivello. Serve a controllare le
economie subalterne imponendo scelte politiche e produttive determinate.
Ma serve anche per gestire proxy wars, o per portare avanti operazioni di regime change, o, infine, come strumento di controllo del territorio per i politici locali espressione del potere Usa:
“Anche la Cia, per combattere il regime rivoluzionario dei
sandinisti in Nicaragua, non esitò a stipulare accordi col boss Felix
Gallardo e la Federaciòn, il progenitore del cartello di Sinaloa. Grazie
a loro poteva ricavare dalla vendita della cocaina e della marijuana i
fondi necessari per le armi delle Contras, le bande paramilitari e
antinsurrezionali che operavano contro il regime nicaraguense partendo
dal territorio honduregno. Le ricerche sul coinvolgimento della Cia e
della Dfs messicana coi narcos sono state confermate dalle rivelazioni,
riportate dalla rivista Proceso alla fine del 2013, di ex agenti della
Dea che lavoravano in Messico negli anni Ottanta[…]La Cia vendeva
cocaina e derivati in casa propria per finanziare operazioni segrete,
vietate dal Parlamento, e forniva armamenti ai mercenari Contras che
dall’Honduras conducevano una guerra contro il governo rivoluzionario
sandinista di Managua”.
Ecco spiegato il problema nella sua complessità e profondità, non
solo dal lato dell’offerta (cioè perché in determinati Stati
latinoamericani si sia concentrata la produzione della droga), ma anche
in quello della domanda: la crescente richiesta di cocaina negli Stati Uniti è funzionale al controllo degli Usa sui paesi poveri del sud, e
questa funzionalità è incentivata vendendo direttamente la droga alla
popolazione statunitensi. Sono gli Stati Uniti che incentivano la
produzione di droga all’estero per venderne il prodotto al proprio
interno al fine di generare un’economia da spendere nell’ingerenza negli
affari dei paesi produttori di droga. Questo è il circolo vizioso che
sta all’origine della questione droga nel continente americano.
Strumenti come il libro di Lorusso aprono gli occhi e svelano
protagonisti e interessi. Opere massmediatiche come Narcos contribuiscono
invece alla reiterazione di una narrazione deviante, spoliticizzante,
una vera e propria droga culturale che inibisce al pensiero critico su
uno dei fenomeni decisivi di questi ultimi decenni. E’ importante
mantenere alta l’attenzione sull’argomento anche qui in Italia, perché
giornalisti e militanti politici che dicono le stesse cose in Messico
trovano sovente la morte. E’ a loro, allora, che dedichiamo questi brevi
appunti.
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