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21/02/2016

Portogallo: calma apparente nel paese governato dalle sinistre

A circa due mesi e mezzo dall’insediamento del nuovo governo portoghese, al contrario di quanto ci si potesse aspettare, c’è poca tensione e poco interesse alle sue sorti, nonostante si tratti di un esecutivo parzialmente “fuori linea” rispetto ai dettami della troika, per di più insediatosi in uno dei paesi “PIGS” della periferia mediterranea europea. Si tratta, infatti, di un esecutivo sostenuto da un’alleanza singolare fra Partito Socialista, Bloco de Esquerda e dalla coalizione tra Partito Comunista e Verdi. Se il primo rappresenta l’ala sinistra dei “partiti della troika”, ovvero lo scudiero dell’integrazione del grande capitale europeo (e, quindi, portavoce degli eurocrati), il secondo ha una composizione simile a quella di Syriza prima dell’accettazione del memorandum di luglio, quindi in larga parte fautore di un velleitario riformismo europeo. Il Partito Comunista Portoghese è invece un partito di massa che, in teoria, ha orientato negli ultimi anni la propria linea in senso anti-UE in maniera radicale.

Si ricorda che le elezioni legislative avevano consegnato la maggioranza relativa alla coalizione di centro destra Partito Socialdemocratico-Partito Popolare, reduce da quattro anni di governo teleguidato dagli “esperti della troika”, giunti direttamente nel paese, che hanno operato un massacro sociale simile a quello greco.

A fronte dell’annuncio, pochi giorni dopo il voto, da parte di “socialisti”, comunisti e Bloco del raggiungimento di un’intesa programmatica in grado di costituire una maggioranza stabile, il Presidente della Repubblica aveva tentato in tutti i modi di evitare tale rassemblement di sinistra consentendo comunque la formazione di un governo di minoranza guidato dai “Socialdemocratici” (il regime parlamentare semi-presidenziale portoghese lo consente), con la motivazione esplicita che mai, in 40 anni di regime liberal-democratico, il paese era stato in mano ad una maggioranza sostenuta anche da partiti “estremisti”, critici nei confronti dell’Unione Europea e della Nato.

Nonostante tale tentativo di ‘golpe istituzionale’, come era prevedibile l’esecutivo di minoranza è stato sfiduciato al primo passaggio utile, senza creare gli smottamenti da destra nel Partito Socialista che si sarebbe aspettato il Presidente della Repubblica, il quale ha dovuto rassegnarsi a concedere il semaforo verde ad un governo monocolore “socialista”, con l’appoggio esterno dei due raggruppamenti parlamentari più radicali.

Tale esecutivo non nasce con la stessa spinta ideale che contrassegnò l’ascesa di Syriza: la formazione greca aveva la velleità di “cambiare l’Europa a partire dalla Grecia”, attraverso una riforma keynesiana che prevedesse l’istituzione di un “new deal europeo”, accompagnato ad una conferenza europea sul debito, la quale avrebbe dovuto portare in parte a sforbiciare il debito greco, in parte a subordinarne il pagamento al tasso di crescita economica; un vero e proprio libro dei sogni che non teneva conto della gabbia istituzionale e politica rappresentata dalle istituzioni e dai trattati vincolanti, che sappiamo a cosa ha portato.

L’accordo fra i 4 partiti portoghesi, invece, è molto più minimalista e si limita a una visione quasi esclusivamente di tipo economico, in quanto prevede soltanto la cancellazione di alcune delle misure di austerità imposte dai commissari della troika (drastici tagli a stipendi e pensioni, spinta estrema alle privatizzazioni, fine della contrattazione collettiva), che avevano morso la carne viva di un paese che risentiva ancora ampiamente, nel sistema economico, nel welfare e nella mentalità diffusa, della Rivoluzione dei Garofani, che è relativamente recente e che fece approdare il paese ad un regime liberal-democratico segnando una discontinuità abbastanza marcata, in senso progressista, rispetto al precedente regime militare (a differenza, ad esempio, dei vicini spagnoli, che hanno visto un’evoluzione nel segno di una sostanziale continuità fra regime franchista e liberal-democrazia). Per il resto, Bloco de Esquerda, Partito Comunista e Verdi hanno esplicitamente rinunciato ad ogni velleità di riforma o rottura dell’Unione Europea, impegnandosi a rimanere leali al governo monocolore del Partito Socialista, il quale rimane a sua volta fedelmente legato ai dettami dell’Unione Europea anche se con un tentativo di smussarne gli aspetti più drastici.

Tale impianto programmatico reca in sé le medesime contraddizioni che hanno segnato il primo governo Tsipras: è possibile ottenere margini di riformismo sociale, anche minimo, nel quadro delle compatibilità determinata dall’Unione Europea? L’esperienza greca, e non solo, dicono di no, la direzione imposta dal pilota automatico continentale è opposta.

Tuttavia, per il momento, nel caso portoghese sembra che gli eurocrati stiano lasciando fare per quel che riguarda le prime riforme di “emergenza sociale”: il salario minimo è stato elevato a 600 euro, anche se entro il 2019 e non entro il 2016 come richiesto dalle sinistre; sono state riassorbite alcune delle tasse imposte dal precedente governo sui redditi più bassi; è stata approvata una legge che proroga sfratti e sequestri giudiziari alle famiglie più povere; sono state bloccate le privatizzazioni della compagnia aerea di stato e del trasporto pubblico di Lisbona e Porto; è stato reintrodotto un certo grado di contrattazione collettiva; sul fronte dei diritti civili sono state eliminate le restrizioni sull’aborto introdotte dall’esecutivo di centro-destra ed è stato concesso il diritto all’adozione alle coppie omosessuali.

Molto più che in Grecia, ci sarebbe da dire. Per il momento, dunque, la variegata maggioranza di governo portoghese porta a casa alcuni risultati senza che vi sia stata grande opposizione o intralcio da parte della Troika. Giova ricordare, però, che essi non sono acquisiti una volta per tutte: nel caso greco, ad esempio, pochi mesi dopo la promulgazione di provvedimenti simili, l’Unione Europea ha ampiamente costretto Tsipras a rimangiarseli tutti.

E comunque i rapporti tra le varie forze che compongono la maggioranza non sempre sono idilliaci. Le prime spaccature si sono registrate nel settore finanziario, dove il Partito Socialista svolge appieno il proprio ruolo di portavoce degli eurocrati; ad esempio, è passata col voto contrario delle sinistre e solo grazie all’astensione dei “Socialdemocratici” la privatizzazione a prezzo stracciato (150 milioni di euro) della banca BANIF, salvata a fine 2015 con 2200 milioni di euro di fondi pubblici (quindi sottratti all’esangue stato sociale lusitano), a pochi giorni dall’entrata in vigore del “bail in” europeo, che non consente più operazioni di questo genere. La proposta delle sinistre radicali era quella di riassorbire l’istituto nella Cassa Generale dei Depositi, banca di proprietà dello stato, che è ancora la più grande di tutto il sistema bancario del paese.

Vedremo fino a quanto durerà questa situazione di equilibrio instabile; per il momento, come detto, l’Unione Europea sembra non affondare il coltello, reduce dal forte danno d’immagine subito dalla brutale e palesemente anti-democratica imposizione del cambio di rotta al governo “riformista” greco.

Una certa pressione, tuttavia, è mantenuta dai mercati finanziari: il famigerato spread di rendimento fra i titoli di stato decennali portoghesi rispetto ai bund tendeschi si attesta stabilmente sopra i 350 punti; a proposito di ciò, il Premier Costa, incalzato dal leader del PSD Passos Coelho, ha esplicitamente ammesso che esiste “un piano B portoghese”, nel caso in cui la situazione debitoria dovesse deteriorarsi e il paese fosse impossibilitato a rispettare i vincoli di bilancio imposti dai trattati europei; tuttavia, rimarca il Primo Ministro, “non vi sarà bisogno di tirarlo fuori”.

Queste parole, in teoria, non dovrebbero suonare esattamente come musica per le orecchie degli eurocrati (immaginarsi quale sarebbe la reazione se venissero pronunciate da Tsipras, sottoposto a strozzinaggio finanziario e a pesanti forme di ricatto per molto meno). Tuttavia, essendo state proferite da un fedele scudiero europeista, è lecito avanzare l’ipotesi che si faccia strada, fra le teste d’uovo di Bruxelles, la tendenza a gestire in maniera differenziata le “crisi del debito” dei paesi periferici; in effetti, in tempi di minacce di Brexit, di imminenti riscritture dei trattati e di turbolenze interne ed esterne varie, è probabile che qualche certezza burocratica sia stata persa anche nelle stanze dei bottoni europee e un parziale reset sia in corso. Ovviamente, l’obiettivo finale non cambia: l’integrazione sempre più stretta e ferrea dei grandi capitali europei richiede che, in ogni caso, nella classe lavoratrice continentale in generale e in quella periferica in particolare, non si “facciano prigionieri”. Su questo non ci piove, perché si tratta di una dinamica imposta dalle tendenze oggettive del competizione capitalistica globale.

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