20/02/2016
39 anni dopo Lama
L’anniversario è atipico, ma ogni 17 febbraio che si rispetti a Roma tutti si sentono in dovere di dire qualcosa sulla cacciata di Lama dalla Sapienza. L’atto che apre il ’77 romano, chiusosi dopo un mese nella grande e tragica manifestazione del 12 marzo, il giorno seguente la morte di Francesco Lorusso. In fondo la “geometrica potenza” si espresse compiutamente in quel mese che cambiò, se non i destini di un paese, quantomeno i riferimenti culturali di un movimento. Non poteva che finire così, con un doloroso e necessario canto del cigno. Sono completamente fuori fuoco i ragionamenti che continuano ad immaginare, col senno del poi, una possibile fine diversa, una “salvezza”, per un movimento che non aveva alcuna rivendicazione particolare da portare avanti, alcuna mediazione da proporre, che non fosse la diretta politicità della sua essenza e presenza. Per ciò stesso, irriducibile a possibili integrazioni pacificanti, a parziali intendimenti con le nascenti convergenze di potere nate proprio per impedire quei parziali intendimenti.
Detto questo, e rilevata fino in fondo la grandezza di un processo politico, bisogna anche uscire dal reducismo di chi ancora fatica a comprendere quel 17 febbraio, che segnò non solo l’apoteosi di un movimento, ma anche il suo decisivo limite politico. Sul momento, e per qualcuno ancora oggi, la cacciata di Lama costituiva la resa dei conti con un apparato politico transitato dalla rivoluzione alla gestione consociativa del potere in chiave repressiva. Valutato in una prospettiva più generale, come dovrebbe essere in tempi, come questi, decisamente “altri” e quindi senza alcuna necessità di legittimazione forzata, quel 17 febbraio certificò la rottura storica tra la classe operaia e la sinistra dei movimenti rivoluzionari. Non era col Pci la resa dei conti, ma con quel pezzo di classe organizzato dal Pci, con i suoi riferimenti culturali, i suoi strumenti politici e sociali, i suoi – perché no – valori, le sue “tradizioni” consolidate da un secolo di lotta, i suoi modelli organizzativi, i suoi schemi mentali.
Il problema non era Lama e la degenerazione politica di un gruppo dirigente completamente integrato, a quel tempo, con lo Stato, ma il movimento operaio per come si era andato strutturando lungo un secolo. Nuove forme organizzative si affacciavano, modelli produttivi in fase di ridefinizione, che generavano nuovi soggetti sociali, con nuovi bisogni, con altre necessità.
Ecco, una parte di quei nuovi bisogni confliggeva apertamente con i bisogni dei soggetti legati ad un modello produttivo in fase di trasformazione. Il lavoro, da valore primario per tutto il movimento di classe, diveniva un disvalore. La disciplina “triste”, per un secolo alla base dell’organizzazione operaia, lasciava il posto all’elogio dell’indisciplina, o quantomeno alla liberazione creativa legata al rapporto “informalizzato”. Al realismo politico di tradizione machiavellica e leninista, subentrava un bisogno di idealismo libertario incoercibile alla mediazione, tanto politica quanto sociale.
Si potrebbe continuare, ma il senso dovrebbe essere a questo punto svelato: un soggetto sociale prendeva il posto di un altro come protagonista politico delle lotte, e questo soggetto modellava la propria azione politica, i propri riferimenti, la propria cultura, alle proprie necessità. Questo, e non altro, venne a scontrarsi la mattina del 17 febbraio 1977 alla Sapienza. Sebbene guidata da dirigenti controrivoluzionari, la classe operaia, intesa nel suo senso più largo, stava con Lama, e avrebbe continuato a stare con quel Pci riformista, non perché “disciplinata” e ammansita da decenni di riformismo, come vorrebbe farci credere certa memorialistica, ma perché quel movimento non si poneva come rappresentante alternativo agli interessi di quella classe, ma come antagonista di quegli stessi interessi.
Non c’era possibile *simpatia*, intesa come “patire insieme”, tra i due soggetti, perché i patimenti erano differenti e differenti le soluzioni. Ambedue, ovviamente, subalterni al potere, ma in qualche modo ormai antropologicamente distanti. Lo scontro non era su *come* rappresentare la classe, ma *quale* classe dovesse trovare rappresentazione. Quella rozza, analfabeta, sradicata, disciplinata dal lavoro e dalla politica, alienata nella fabbrica ma riscattata socialmente, con un ruolo ben preciso, un compito storico che per un secolo ha portato alla strutturazione delle proprie organizzazioni di rappresentanza, formando e imponendo un contropotere sociale e culturale nella società; oppure quella inserita nella metropoli che prendeva il sopravvento sulla fabbrica, culturalmente sviluppata, universitaria, precaria, senza lavoro stabile, con pochi riferimenti culturali, disorganizzata, alienata e impossibilitata all’esercizio di qualsiasi contropotere effettivo e non fugace.
Come sappiamo, lo scontro portò alla rovina di ambedue i soggetti nel campo della sinistra. Da una parte il Pci perse il suo ruolo storico, sebbene fino alla fine dei suoi giorni rimase inequivocabilmente il partito della classe operaia, tradotta ovviamente in senso riformistico. La fine del Pci coincise con la fine di ogni possibile rappresentanza politica effettiva e credibile delle classi subalterne nei gangli del potere. Il movimento perse nel giro di pochi mesi tutta la forza accumulata in un decennio di partecipazione e mobilitazione radicale. E allora, invece di “celebrare” una giornata che continua a fare più danni dei meriti che pure ebbe, sarebbe il caso oggi di chiedersi come, a partire da quella contraddizione che sfociò in quel modo, riparare ai guasti del passato. Non per distribuire torti e ragioni davvero poco interessanti (per evitare fraintendimenti: aveva ragione l’Autonomia e torto il Pci e Lama, in quella giornata e in quel 1977; mentre aveva ragione il Pci e torto l’Autonomia, sul piano storico dei rapporti di classe), ma per capire come riprendere le fila di un’azione politica di classe che sappia esprimersi in senso finalmente maggioritario, recuperando la migliore tradizione del realismo politico.
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