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28/02/2016

G20. La crisi non c'è e comunque devono pagare gli ultimi

Chi si aspettava dal G20 “finanziario” qualche indicazione coerente per affrontare in modo efficace la crisi – mai interrotta, dal 2008 ad oggi – dovrà rimettere nel cassetto le sue speranze. Non c'è nessuno che sappia cosa fare a livello globale, mentre all'interno delle gradi istituzioni internazionali prevale ormai in modo evidente una visione strettamente “nazionalistica”.

I fatti. La riunione dei venti primi paesi del mondo, convocata stavolta a Shangai, ha evidenziato soprattutto le divisioni. Non solo sul piano sempre ostico delle “soluzioni”, ma addirittura al livello dell'analisi. Stupefacenti, in questo senso, le posizioni dei ministri economici francese e statunitense. Il primo, Michel Sapin, ha sorpreso buon parte dei presenti affermando che “non si può parlare di crisi dell'economia mondiale in questo momento” e quindi «non abbiamo bisogno di mettere in atto nuove politiche». Se si tiene conto che la situazione economica francese è senza dubbio tra le peggiori del Vecchio Continente, la sortita di Sapin appare quasi una formula di scongiuro.

Stessa impostazione, dall'alto però di una posizione economica e soprattutto finanziaria migliore, quella del segretario del Tesoro Usa, Jack Lew. «Questo non è un momento di crisi. Non aspettatevi una risposta da crisi in uno scenario non da crisi».

Bellissimo, la crisi non esiste, quindi non bisogna fare nulla di nuovo...

Eppure il vertice era iniziato in tutt'altro modo, con nell'aria l'eco della preoccupazione espressa dall'Ocse nel suo ultimo rapporto, «Going for Growth 2016». Lì, il segretario generale dell'organizzazione, Angel Gurria, aveva espresso tutti i timori per l'evidente rallentamento dell'economia globale, quantificato in una robusta diminuzione delle previsioni di crescita per il 2016, dal 3,3 al 3%. Di conseguenza, aveva chiesto una «urgente e complessiva risposta, ricorrendo a tutte le leve monetarie, fiscali e strutturali a disposizione dei governi», oltre naturalmente a una «maggiore ambizione sulle riforme strutturali».

La successione degli interventi nel G20 ha però man mano fatto emergere visioni addirittura opposte sulle politiche monetarie fin qui seguite, con sorprendenti contrasti tra “falchi”. Il luciferino Wofgang Schaeuble, ministro delle finanze tedesco, ha per esempio spiegato che secondo la Germania non c'è necessità di ulteriori stimoli alla crescita, tantomeno da parte dello stesso G20, perché «la politica monetaria è già estremamente accomodante». Un messaggio indirizzato soprattutto alla Bce, il cui presidente, Mario Draghi, ha promesso per marzo una più incisiva azione della banca centrale in termini di espansione della liquidità (tassi d'interesse negativi sui depositi, aumento della cifra spesa mensilmente per acquistare titoli “dubbi”, allargamento della tipologia dei titoli acquistabili, o altre azioni ancora ignote).

Quello che sembrava il suo alter ego, solo un po' più giovane e atletico, l'olandese Jeroen Dijsselbloem, si è schierato invece stavolta su un fronte diverso, affermando che la politica monetaria può invece fare ancora molto.

Ma proprio le politiche monetarie ultra-espansive – in questo momento da parte della Bce e della Banca del Giappone – sono entrate nel mirino della critica. Il governatore della Bank of England, Mark Carney, ha per esempio espresso forte scetticismo verso le politiche di “tassi negativi” (le banche che depositano denaro presso la banca centrale devono pagare una specie di “penale”). E la stessa direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, fin qui favorevole a tutte le iniziative che si potesse tradurre in “stimoli per la crescita”, si è mostrata scettica sull'efficacia della leva monetaria.

Più tranquilla la posizione cinese, che pure alcuni considerano concausa del duro inizio d'anno sui mercati internazionali. Il governatore della banca centrale di Pechino ha negato la possibilità di altre svalutazioni dello yuan, mentre ha garantito ampie disponibilità per ulteriori stimoli finanziari all'economia, alle imprese e alle famiglie.

Alla fine del giro, però, resta il fatto che non si vede all'orizzonte nessuna strategia mondiale unitaria. Ogni grande potenza o area economica mette i propri interessi davanti a tutto e “teorizza” comportamenti che i concorrenti dovrebbero assumere (in modo da facilitare la propria espansione o sopravvivenza a scapito degli altri; un po' come avviene nell'Unione Europea).

Soprattutto, sembra finita la breve epoca in cui le politiche monetari espansive delle banche centrali apparivano come l'unica soluzione possibile. Ma tolta la droga monetaria, quali ipotesi restano in campo?

Un sola in realtà, antica quanto lo sfruttamento: le “riforme strutturali”. Espressione generica, come sappiamo, che copre politiche concrete addirittura criminali. In Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda o in Grecia si potrebbero stilare lunghi elenchi (dalle pensioni ai contratti di lavoro, dalla precarietà alle tutele, dalla sanità all'istruzione, ecc). E sarebbe perciò socialmente pericoloso indicare esplicitamente “terapie” dello stesso tipo. Così, per esemplificare cosa si vuole dire, la Lagarde ha provato a suggerire una traduzione per il caso cinese: "Pechino ha bisogno di accelerare le riforme strutturali per aumentare la crescita potenziale, dare maggiore potere al mercato per giocare un ruolo decisivo, accelerare la riforma delle imprese di Stato e approfondire le riforme del sistema di sicurezza sociale".

Privatizzazioni, deregolamentazione, scardinamento del welfare (che in Cina era appena ai primi passi!). Bisogna dire che a questi fa difetto pure la fantasia...

In sintesi: la crisi non c'è ma, se per caso non potesse essere ancora negata, comunque va fatta pagare a qualcun altro. In termini di aree economiche e di classi sociali. Come sempre, peggio che mai...

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