La controriforma costituzionale voluta dal governo Renzi, che sarà sottoposta a referendum nel prossimo autunno, arriva a conclusione di un trentennale processo di ridefinizione della forma Stato, i cui primi passi sono da rintracciare già alla fine degli anni ’70. Processo che ha subito accelerazioni costanti negli anni della sconfitta operaia e del declino dei movimenti di classe. Questa spinta alla restaurazione e alla ridefinizione in senso reazionario e antipopolare del campo della politica non è certo slegata dalla controrivoluzione sociale ed economica della fase neoliberista del capitalismo attuale, e non è addebitabile esclusivamente al pinocchio fiorentino e al convitato di pietra del Pd e dei transfughi del fu blocco berlusconiano.
La riforma costituzionale che introduce il Superamento del bicameralismo paritario e la revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione, in via di definitiva approvazione e iter che si concluderà nella primavera, è l’ultimo tassello di un percorso storico e politico che viene da lontano. Un passo politico-istituzionale di pari importanza fu l’introduzione del maggioritario nel 1993 nel sistema politico elettorale, sancendo la fine dell’epoca dei partiti di massa e della democrazia parlamentare a condizionamento dal basso che dal dopoguerra fino alla fine degli anni ’70 aveva retto il quadro della compatibilità generale, in una fase espansiva del modello socialdemocratico o liberaldemocratico. Inizia l’epoca della cosiddetta Seconda Repubblica, che sarà largamente egemonizzata dalla sottocultura berlusconiana, dalla personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, dalla tendenza plebiscitaria e dal rafforzamento del potere esecutivo su quello parlamentare attraverso il massiccio e crescente utilizzo della decretazione d’urgenza. Quello che fu definito da alcuni il grande balzo indietro ha origini lontane.
Non stiamo certo qui a fare i nostalgici delle virtù formali del modello democratico novecentesco, in particolare del nostro impianto costituente, che ha sempre presentato, almeno sulla carta, un carattere fortemente progressista rispetto ad altri paesi europei. Rimandiamo su questo punto all’ottimo opuscolo di Vladimiro Giacchè sulla costituzione italiana e la sua incompatibilità con i vincolanti Trattati europei. Il punto è un altro. La riforma costituzionale si inserisce nel quadro generale di un durissimo attacco economico e sociale alle classi subalterne, nel commissariamento della politica ad ogni livello, il caso romano fa scuola, e prima di esso la vicenda Sala a Milano; alla chiusura di spazi di opposizione sociale. Le controriforme del renzismo hanno lasciato segni profondi nella classe, a partire dall’introduzione del Jobs Act, la cancellazione dell’articolo 18, la scuola-azienda. Tutte cose che non erano riuscite alla banda reazionaria dell’ex Cavaliere, oggi sono state condotte in porto e rivolte contro milioni di lavoratori.
Ebbene dopo 2 anni di renzismo, il regime Pd, che tenta di rimanere saldamente al governo con ogni mezzo necessario, punta con l’Italicum e la riforma costituzionale a chiudere la partita. Certo tutto ciò non è farina solo del sacco italiano: la strategia controriformista risponde alle esigenze della componente transnazionale del nostro capitale e risponde alle direttive strategiche del governo dell’Ue. Non c’è una di queste misure che non abbia avuto l’avallo preventivo della commissione europea.
Le regole del gioco “democratico” sono cambiate e soprattutto i centri di potere sono altrove. La parabola greca è stata la chiara fotografia dei rapporti tra le classi ma soprattutto delle forze che decidono il destino delle nazioni e dei popoli europei. La riforma costituzionale viene giocata dal regime renziano come occasione propagandistica per invocare la “nuova” politica che rottama il baraccone della “vecchia” politica meno invadente e soprattutto meno farraginosa; in realtà si rafforzano le lobby politiche-burocratiche dell’apparato che fa funzionare la macchina statale. Non si procede infatti alla cancellazione del Senato, ma si elimina il Senato a suffragio universale diretto, il quale diventerà una camera di compensazione dell’apparato politico, nominata dalle forze economiche che di fatto governano quelle politiche. Ma il passaggio vero è il processo conclusivo di invasione del potere esecutivo sul potere legislativo, l’affermazione più o meno compiuta di una Repubblica presidenziale plebiscitaria, fondata sull’uomo della “provvidenza”. L’altro punto nodale è la legge elettorale (l’Italicum) che assicura una maggioranza assoluta dei seggi all’unica lista che ottiene il miglior risultato (al primo turno se supera la soglia del 40% dei voti espressi; al ballottaggio senza la previsione di una soglia di partecipazione, dunque anche nel caso di una astensione maggioritaria), si produrrà l’effetto che un solo partito potrà formare il Governo e ottenere la fiducia alla Camera, anche se espressione di una esigua minoranza di votanti.
Con queste ultime controriforme il regime autoritario neoliberista giunge a compimento di un processo pluridecennale e la cabina di regia europea applaudirà alla ratifica della morte della democrazia rappresentativa, del modello che la stessa borghesia, nella lotta contro il campo socialista, aveva considerato la cifra della presunta superiorità sull’altro mondo. Ma oggi il governo dei mercati non ha bisogno certo di parlamenti funzionanti, non ricerca consenso o approvazione, ma si struttura e si definisce in merito a una feroce politica regressiva, che assume i connotati di guerra interna alle classi popolari, e all’esterno nell’espansione neocoloniale tinta di messianismo antiterrorista.
La natura oligarchica di questa regia europea e nazionale non solo non è celata ma pienamente rivendicata: non deve esistere alcuna sovranità popolare, neanche formale. L’esecutivizzazione della politica fa il paio con la militarizzazione dei rapporti sociali e sindacali. Questo stato di cose conclamato, non certo più potenziale, non va disgiunto dalla dinamica sociale, dalla devastante crisi che attanaglia le classi subalterne e si lega a una necessaria battaglia per la difesa degli spazi di agibilità politica. Non possiamo certo considerare, come fanno alcuni, questa storia della riforma istituzionale e del referendum plebiscitario, voluto da Renzi come vetrina personale di certificazione di una leadership, una cosa che non riguarda il mondo della sinistra di classe. E’ tutto tranne che un problema politicista. Non solo perché sul piano teorico il campo della politica, anche istituzionale, è parte integrante delle contraddizioni sociali e di classe, dello scontro permanente tra culture e visioni del mondo, ma anche e soprattutto perché la ricaduta sociale e pratica di questa ingegneria costituzionale ed elettorale coinvolge pesantemente ciascun subalterno. La restrizione della democrazia formale restringe retrospettivamente anche la democrazia sostanziale, certifica giuridicamente un cambio di paradigma, e lo sancisce con la forza del diritto e della legge laddove vigeva l’informalità dei rapporti di forza.
Sul referendum si rende allora necessario costruire una campagna nazionale che sappia cogliere la contraddizione principale, il punto nevralgico: la lotta contro il renzismo e il regime Pd. Sarebbe un grave errore allora sottovalutare la posta in gioco e lasciare la campagna politica o alla destra populista o ai rimasugli di una sinistra dei professori, acefala e lamentosa. Non è una lotta tra Pd, populismo “grillo-leghista” e “tsipriani d’Italia”, sebbene dai media venga ovviamente descritta in questo modo. E’ una lotta che ci interessa perché ci riguarda, perché pregiudica la nostra agibilità politica, non tanto come compagni ma come classi subalterne.
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