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26/02/2016

Le crisi dell'Unione Europea

Basta scorrere i titoli delle Conclusioni dell’ultimo Consiglio Europeo (17-18 dicembre 2015), per cogliere la gravità delle crisi in cui si dibatte l’UE: migrazioni, terrorismo, unione monetaria, mercato interno, clima, Brexit, ISIS e Siria. Leggendole ci si accorge subito che l’UE le affronta con il consueto approccio: varare misure per affrontare nell’immediato le crisi senza essere mossi da prospettive di lungo periodo, attuarle passo dopo passo, sempre però in funzione della costruzione e gestione del mercato unico sovranazionale, il vero e solo grande disegno delle élite europee. Nella ‘realtà effettuale’, per usare parole di Machiavelli, quelle che si vanno compiendo non sono scelte di routine, anche se l’UE le presenta business as usual. Questo approccio non è casuale, in quanto tipico del pluridecennale metodo funzionalista – ‘da cosa nasce cosa’, ciò che raffinati esegeti chiamano ‘effetti di spill over’; in secondo luogo, perché questa routine dai tratti burocratici esprime la consapevolezza delle élite europee dell’ampiezza dei loro poteri in grado di imporre le proprie scelte senza che in nessun paese – neanche là dove sono stati infranti equilibri politici come in Spagna Grecia e Portogallo – governi, partiti, sindacati o movimenti abbiano l’intenzione e, soprattutto, la forza di opporvisi. A scontrarsi, almeno a parole, con l’UE sono formazioni di estrema destra che si battono esclusivamente contro l’ingresso dei migranti e che come alternativa prospettano al più il ritorno allo Stato-nazione, ormai indebolito dalla devoluzione di poteri sovrani; oppure sono capi di governo, come Renzi, che sperano grazie alle polemiche con la Commissione di lucrare consensi nei sondaggi d’opinione e alle elezioni.

1. Migrazioni e valori europei

Rispetto alle possenti migrazioni, che né i naufragi né le rigidità invernali fermano a segno della disperazione di chi fugge guerre e povertà, l’UE ha a cuore solo la salvaguardia dell’Accordo di Schengen e la libera circolazione delle persone tra i 28 Stati membri, prerequisiti del funzionamento del mercato interno. Se vengono meno, crolla un pilastro dell’Unione Economica e Monetaria e i colpi assestati da ben sei paesi all’Accordo di Schengen, con la chiusura temporanea dei propri spazi nazionali, si aggiungono all’innalzamento dei muri intorno all’Ungheria per respingere i migranti. L’obiettivo dell’UE è salvare la libera circolazione al suo interno, rafforzando i confini esterni con FRONTEX, con un corpo di guardie europeo, con gli hotspots, e con misure di contrasto in mare e a terra. Salvare la libera circolazione nello spazio Schengen e contenere i flussi migratori è un’equazione di difficile soluzione.

Nonostante le procedure d’infrazione, avviate il 10 dicembre 2015, perché gli Stati membri non hanno dato vita al sistema europeo di asilo, si continuano ad adottare provvedimenti nazionali che frappongono ostacoli non solo ai ‘migranti economici’ ma agli stessi richiedenti asilo; d’altra parte la stessa Commissione, invece di avviare il superamento della Convenzione di Dublino che in base all’articolo 3 vieta di richiedere lo status di rifugiato in qualsiasi paese, acconsente alla sospensione temporanea di Schengen e preme affinché con gli hotspots si rilevino le impronte digitali da trasmettere al centro EURODAC in modo da impedire ai richiedenti asilo di muoversi (anche per ricongiungersi con i propri familiari). L’UE continua a oscillare tra la spinta tedesca, viepiù affievolitasi, ad accogliere i migranti provenienti dalle zone dichiarate non-sicure, e la pressione dei governi di destra a tenere sbarrate le frontiere. Le decisioni – 2105/1523/UE e 2015/1601/UE – hanno definito misure per ricollocare tra i paesi UE i richiedenti asilo, senza che queste abbiano avuto alcun seguito. In questo campo, gli Stati fingono di intraprendere azioni comuni, mentre si sottraggono ai doveri della protezione internazionale sotto le pressioni della destra e dei gruppi xenofobi.

Dopo le aggressioni contro le donne a Colonia la notte di capodanno, si è innescata la marcia indietro, tanto che la stessa Cancelliera Merkel spinge, oltre che per un più stretto controllo delle frontiere esterne e l’apertura degli hotspots, per potenziare le risorse per il rimpatrio, e soprattutto per apprestare il più rapidamente possibile i tre miliardi di euro per la Turchia affinché trattenga nei propri campi i profughi siriani.

Nel rapporto con la Turchia emerge la doppiezza con cui l’UE si muove nello scenario internazionale e nelle politiche migratorie. Alla Turchia si concedono tre miliardi di euro, pur essendo attiva nella guerra in Siria e porta d’ingresso di armi e guerriglieri verso l’ISIS, ripagata da questa con l’attacco nel centro di Istanbul. Dopo la strage terroristica di Parigi del 13 novembre 2015, l’UE reagisce avallando legislazioni eccezionali nelle diverse nazioni, ingaggiando una lotta militare in Europa grazie ad una specifica Agenzia di Controterrorismo (attiva dal 25 gennaio 2016), e offrendo un sostegno politico alle guerre in Medio Oriente e in Libia. In Francia, il governo socialista ha dichiarato lo stato d’eccezione con la sospensione di fondamentali garanzie della libertà personale e ha presentato un disegno di legge perché, oltre alla condanna penale, si tolga la cittadinanza a chi dei suoi 3.500.000 abitanti con doppia nazionalità fosse implicato nel terrorismo – l’unico precedente di cancellazione della cittadinanza risale al regime di Hitler e di Pétain. Proprio per impedire il ripetersi di queste odiose misure è stato approvato nel 1963, e modificato nel 1994, il Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dell’uomo e delle libertà fondamentali, che all’articolo 3 vieta l’espulsione dei cittadini sancendo che ‘nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino’.

In Danimarca sotto la spinta del governo di destra, il Parlamento ha varato il 26 gennaio 2016 una legge per l’esproprio dei beni dei rifugiati, di valore superiore ai 1.350 euro, al fine di ripagarsi delle spese di soggiorno, in violazione della Convenzione del 1951, che agli articoli 8, 13 e 30 prevede invece specifici trattamenti economici a loro favore. Consapevole di questa violazione, il governo danese chiede ora la modifica della Convenzione venendo però meno al principio-base del diritto internazionale – pacta sunt servanda –, che implica il divieto di modificazioni unilaterali delle clausole dei Trattati.

I governi, pur seguendo ideologie diverse – i ‘valori repubblicani’ in Francia, il multiculturalismo in Gran Bretagna, Olanda e Germania – seguono pratiche di assimilazione perché non sono intenzionati a mettere in discussione le tradizioni politico-culturali dell’Occidente. Nell’UE si agitano retoricamente i valori di libertà e democrazia, che non guidano certo le sue politiche e che, pur richiamati nei primi articoli del Trattato di Lisbona, cozzano con l’insieme delle sue norme predisposte solo al fine del buon funzionamento dei mercati.

Prevale la volontà di affermare la supremazia dei ‘valori europei’, a cui i migranti dovrebbero adeguarsi. Galli della Loggia ha scritto che le regole “rappresentano e tutelano sempre determinati modelli di vita, determinati valori, frutto di una determinata storia specialmente religiosa [...]. Per gli immigrati integrarsi implica necessariamente la rinuncia a una parte più o meno importante della propria cultura”1.

Mi fermo qui con la citazione, perché è sufficiente per cogliere l’esaltazione acritica della ‘civiltà europea’ di molti opinionisti, retaggio dell’epoca coloniale. I ‘valori europei’, se non si vogliono confondere con le ideologie e le idiosincrasie dei maîtres à penser, sono incorporati nelle Costituzioni: sono i diritti inviolabili e le libertà personali, i diritti politici e sociali, mentre le limitazioni dell’agire individuale sono scritte nei Codici penali. Le Costituzioni e i Codici penali valgono per tutti, nativi e non nativi, senza discriminazioni di razza, di religione o di sesso. La retorica xenofoba sulle tendenze criminali dei migranti a causa della loro diversità culturale non ha ragion d’essere: chiunque faccia violenza contro una qualsiasi altra persona, deve essere perseguito secondo quanto prescritto dalla legge penale. Oltre questo, nessuno può pretendere di imporre modelli o stili di vita, men che mai la supremazia di determinati valori. E non bisogna mai dimenticare che l’Europa ha conosciuto le nefandezze del fondamentalismo cristiano2 e i crimini del razzismo. Si è dovuto aspettare Giovanni XXIII perché gli ebrei fossero dai cattolici chiamati ‘fratelli’ e venisse cancellata l’espressione ‘perfidi giudei’ dalla preghiera del venerdì santo; Giovanni Paolo II perché il 13 aprile 1986 avvenisse la prima visita di un papa ad una sinagoga; Francesco perché si riconoscesse che anche “da un punto di vista teologico, appare chiaramente l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei”3, andando così oltre la Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, che pure fece cadere l’affermazione secondo cui extra ecclesia nulla salus – fuori della Chiesa nessuna salvezza. Il teologo Brunetto Salvarani ha scritto che, nonostante siano passati più di cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, questo tempo non è stato ancora sufficiente a “estirpare dalla teologia e dalla mentalità cattolica diffusa i normali e radicati atteggiamenti di antigiudaismo”4. L’Europa non può certo impartire lezioni sul fondamentalismo quando per secoli e secoli la Chiesa di Roma ha alimentato l’antisemitismo con l’accusa di deicidio e con l’evocazione della punizione divina del popolo ebraico.

Non solo la Chiesa cattolica ha da rimproverarsi amaramente per la propagazione dell’antisemitismo, pure la Chiesa luterana vi ha largamente contribuito, a cominciare dal suo fondatore Martin Lutero: nel suo il libello Degli ebrei e delle loro menzogne, scritto nel 1543, non esitò a incitare a dar fuoco alle sinagoghe e alle scuole ebraiche. Spinta da questa ideologia antisemitica tenuta viva nei secoli successivi, la Chiesa luterana ha sostenuto il nazismo e un suo vescovo, Martin Sasse, giunse a scrivere che con il 10 novembre 1938, la Notte dei Cristalli, finalmente si metteva fine al potere degli ebrei ‘sulla nuova Germania’. Per questo da più parti si auspica che il Giubileo luterano del 2017, ricorrenza del cinquecentesimo anniversario dell’affissione delle 95 Tesi, la Chiesa riformata avvii nella sua collegialità una riflessione critica per giungere alla condanna di queste degenerazioni ideologiche, che si radicarono in ampi settori della popolazione e fecero da substrato dell’egemonia nazista sulla società tedesca5.

Oggi i cristiani, e i cattolici in particolare, soffrono repressione e morte per la loro fede in molte parti del mondo, così come infuriano con il fuoco delle armi le lotte tra Sunniti e Sciiti, ciò che fa risaltare la conquista, che sarebbe un bene valesse su scala universale, della laicità delle istituzioni pubbliche, come precondizione della convivenza tra fedi e credenze diverse. Per superare le guerre religiose in Europa venne istituita, fra il Sei e Settecento, una sfera pubblica separata dalla sfera privata dove ognuno potesse coltivare il proprio credo, in virtù della garanzia della libertà di coscienza e di espressione del pensiero. La laicità ha sancito la neutralità delle istituzioni pubbliche: le moderne Costituzioni, con l’incorporazione dello Stato di diritto, impediscono che una qualsiasi opinione e un qualsivoglia stile di vita possano pretendere una qualche superiorità perché lesiva della sfera della libertà personale. Il nesso tra diritto e libertà è stato messo a fuoco da Kant: “il diritto è l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà”. Ralws l’ha riformulato scrivendo: “ogni persona ha un eguale diritto al più esteso sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema per tutti” 6.

La laicità, ha detto Norberto Bobbio, è un insieme di regole per la pacifica convivenza di persone appartenenti a fedi diverse, o senza nessuna fede, e quindi come un metodo per garantire l’uguale libertà di tutti/e, avversando la costruzione di un’etica laica che andasse al di là di queste finalità. La neutralità delle istituzioni pubbliche è la condizione necessaria, posta in luce da Gerald Dworkin,  dell’autonomia della persona perché essa implica, non potendosi stabilire una gerarchia tra i valori o promuoverne alcuni a danno di altri,  la libertà di ognuno/a nelle scelte di vita7.

La neutralità delle istituzioni pubbliche garantisce il pluralismo dei valori e dei comportamenti, crea le condizioni di un loro libero confronto e la possibilità di reciproche influenze. La politica di assimilazione provoca una ‘guerra culturale permanente’, mentre il rispetto dei diritti costituzionali e del Codice penale può generare una società aperta a un futuro comune di persone e collettività diverse per lingua e tradizioni.

2. Brexit

Nelle Conclusioni del Consiglio Europeo del 17-18 dicembre, poche righe sono dedicate al referendum che il governo Cameron ha deciso di indire, senza però fissarne la data in vista del negoziato con l’UE. L’European Union Referendum Bill è stato definitivamente approvato il 14 dicembre 2015 e la sua formulazione suona secca: ‘Deve la Gran Bretagna rimanere membro dell’Unione Europea o abbandonare l’Unione Europea?’.

Rilevanti sono le questioni su cui Cameron ha avviato la trattativa con una lettera a Donald Tusk, fatta pervenire anche a Junker, a Schultz e ai Capi di Stato e di governo del Consiglio Europeo8. Sulla governance economica, il governo britannico chiede di evitare discriminazioni delle imprese in base alla moneta utilizzata nelle transazioni, di definire misure a tutela del mercato interno e degli interessi degli Stati membri che non fanno parte dell’Eurozona, stabilendo la loro non responsabilità finanziaria nel sostegno dell'euro. La Gran Bretagna vuole che sia sancita giuridicamente la sua dissociazione dal processo di creazione di un’unione ‘sempre più stretta dei popoli d’Europa’ – come recita l’articolo 1 del TUE –, e si fa paladina del ruolo dei parlamenti nazionali a cui dovrebbe essere dato un potere di veto sulle iniziative legislative dell’UE. Inoltre, mira a utilizzare il principio di sussidiarietà a vantaggio degli Stati membri e pretende l’opting-out in materia di giustizia e affari interni (di cui già gode in relazione all’euro). Il governo Cameron spinge l’UE a promuovere più attivamente politiche di innalzamento della produttività, e, mentre pretende un migliore funzionamento del mercato interno attraverso l’attuazione piena della libera circolazione di merci servizi e capitali, ha intenzione di cancellare i diritti sociali per i primi quattro anni dei lavoratori comunitari trasferitisi in Gran Bretagna. L’UE, disposta a compromessi su tutti i punti, si oppone fermamente alla sospensione dei diritti sociali dei migranti intracomunitari, poiché limiterebbe la libera circolazione delle persone. Questo sarebbe un colpo di maglio al mercato interno, che fin dal Trattato di Roma del 1957 si regge sulle quattro libertà di circolazione: delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. Donald Tusk, nella conferenza stampa del 17 dicembre, ha ribadito il dissenso sulla questione dei diritti dei lavoratori comunitari, la più spinosa nelle trattative con la Gran Bretagna.

La linea dell’UE verso la Gran Bretagna è stata più dettagliatamente esposta da Tusk nella Lettera al Consiglio Europeo del 7 dicembre 2015, particolarmente significativa perché rivela il disegno delle élite europee di un’integrazione sempre più stretta, e vincolante, per gli Stati dell’Eurozona, e della creazione di un secondo cerchio formato da tutti gli Stati membri intorno al mercato interno. Afferma Tusk che i 19 paesi dell’Eurozona dovrebbero intensificare il processo di ‘messa in comune’ delle sovranità, e che nessun paese può pretendere un diritto di veto sui processi d’integrazione dell’Eurozona, cosicché “quelli che vogliono rendere più profonda l’integrazione possono andare avanti, rispettando i desideri di quelli che non vogliono avanzare oltre”.

3. L’Unione economica e monetaria

Il punto centrale della risposta a Cameron, si è visto, è  il progetto d’integrazione sempre più stretta dell’Eurozona, investita negli ultimi mesi da una nuova ondata di innovazioni istituzionali, politicamente sanzionate dal Consiglio Europeo del 17-18 dicembre 2015. Al capitolo III (punto 14), nel quadro e nei tempi stabiliti dal Report dei cinque presidenti, le Conclusioni fanno riferimento a tre insiemi di misure volte a: i) rendere più efficace la governance economica e fiscale, ii) dar vita ad una rappresentanza esterna unitaria dell’euro; iii) procedere nell’Unione bancaria.

Le misure richiamate erano già state messe in cantiere dalla Commissione, e dunque il Consiglio Europeo si è limitato ad avallarle politicamente. Anticipo il mio giudizio su di esse, che suffragherò con i fatti: sono provvedimenti che conferiscono ancora più penetranti poteri in campo fiscale, economico e finanziario alla Commissione e alle diverse formazioni del Consiglio dei ministri, istituendo nuove ‘authorities’, senza che il Parlamento europeo o i Parlamenti nazionali, per non parlare dei cittadini, ne abbiano potuto perfino discutere. Ho più volte scritto, anche su questa rivista, delle procedure antidemocratiche dell’UE, di un’oligarchia che si attribuisce competenze sempre più estese, pur consapevole del deficit di legittimità democratica che pretende di sanare depoliticizzando gli ambiti decisionali, devoluti a Comitati di esperti e ad Agenzie indipendenti. I ministri dei governi nazionali, radunati nelle formazioni del Consiglio, hanno un ruolo di co-legislatori dei regolamenti che entrano in vigore direttamente, e attraverso gli altri strumenti normativi quali le direttive, le decisioni e le raccomandazioni determinano la politica dell’UE (articolo 288 TFUE), incidendo profondamente sulla vita dei cittadini e delle istituzioni degli Stati membri: si ricordi che fu l’ECOFIN, il 7 settembre 2010, a varare il Semestre europeo successivamente corredato da regolamenti e direttive. A sua volta la Commissione, oltre a detenere il monopolio dell’iniziativa legislativa ordinaria, attraverso raccomandazioni e decisioni adotta misure politiche creando addirittura organi istituzionali, come ora vedremo; infine il Consiglio Europeo detta l’agenda politica dell’UE (senza doverne mai rispondere), e detiene l’iniziativa del potere di revisione dei Trattati (secondo l’articolo 48 TUE).

Vengo ai fatti, accaduti tutti il 21 ottobre 2015 e passati sotto silenzio, forse perché atti della sola Commissione conosciuti solo dagli addetti ai lavori9. Comunque, qualora informazioni su di essi fossero circolate per tempo, nessuno sarebbe potuto intervenire in quanto non sottoposti all’iter della codecisione, sottratti dunque alla stessa discussione parlamentare, europea e nazionale.

Il 21 ottobre 2015 la Commissione invia una Comunicazione, COM(2015)600, al Parlamento europeo, al Consiglio dei ministri e alla BCE, in cui si annunciano iniziative per far avanzare l’Unione Economica e Monetaria. Il primo obiettivo è di modificare alcune procedure del Semestre europeo in modo che nel processo decisionale si prendano in considerazione prioritariamente le tematiche dell’Eurozona e in funzione di queste valutare le questioni relative ai singoli paesi, mentre oggi avviene il processo inverso: partendo dall’analisi e dalle proposte di politica economica dei singoli paesi si costruisce la visione d’insieme dell’Eurozona. Evidente che questo impianto metodologico concentra ancor di più le competenze, analitiche e decisionali, negli organi dell’UE e facilita la subordinazione degli interessi dei singoli paesi a quelli dell’Eurozona, spesso coincidenti con quelli della Germania e dei suoi stretti alleati del Benelux. Pur essendo gli strumenti del Semestre europeo particolarmente efficaci, la Commissione si propone di istituire un ulteriore Servizio di Supporto per le riforme strutturali così da monitorare i paesi incentivandone al contempo l’attuazione, e un Comitato Fiscale Consultivo Indipendente Europeo per far sì che le politiche nazionali perseguano l’obiettivo del consolidamento fiscale rispettando i target di deficit e debito pubblici, come stabiliti nei Trattati e nei regolamenti del Six Pack e Two Pack. Inoltre, la Commissione ritiene necessaria l’istituzione di Comitati Nazionali per la Competitività le cui finalità risultano ben evidenti fin dal nome, e di una Rappresentanza unica dell’Eurozona negli organismi internazionali a cominciare dal FMI – oggetto del provvedimento specifico COM (2015)603.

Con propositi e azioni, continua intensa l’integrazione dei paesi dell’Eurozona, i quali nell’ambito dell’Unione bancaria, dove è già attiva la sorveglianza unica europea da parte della BCE, si sono dotati di un meccanismo unico di risoluzione delle banche in crisi (entrato in vigore il 1° gennaio 2016). Da alcuni mesi si sta approntando la direttiva sulla garanzia dei depositi, ancora in fase istruttoria date le obiezioni della Germania intenzionata a dilazionarla fino a quando non si sarà stabilizzata la situazione finanziaria dei paesi con debiti pubblici eccessivi. Dunque, la garanzia dei depositi a livello europeo, definita da Draghi la ‘terza gamba’ dell’Unione bancaria, viene legata a una fase ulteriore di austerità.

Questa dell’Unione bancaria è uno dei temi su cui Matteo Renzi ha polemizzato con Junker e con la Germania, criticata anche per il progetto in collaborazione con Gazprom della pipeline North Stream 2, alla cui costruzione le imprese italiane vorrebbero partecipare. Le polemiche di Renzi con la Commissione Junker hanno l’obiettivo di intercettare il diffuso malcontento verso l’UE, oggi capitalizzato soprattutto dalle destre estreme. Ha però obiettivi più immediati quali la concessione della flessibilità nelle leggi di bilancio del 2016 (ancora sotto osservazione a Bruxelles) e del 2017, e il via libera alla vendita dell’ILVA senza incappare nella normativa sugli aiuti di Stato. Renzi ha soprattutto il problema di sostenere le banche italiane nella liberazione dai loro crediti in sofferenza – in gergo i Non Performing Loans (NPL) – che pesano sui loro bilanci per ben 201 miliardi (a novembre 2015, secondo le rilevazioni della Banca d’Italia). Verso la Commissione c’è risentimento da parte di Renzi, perché essa ha dato disco verde agli aiuti di Stato nel periodo 2008-2013, tollerando che il governo Merkel erogasse 238 miliardi di euro per ricapitalizzare le proprie banche, molte delle quali, le Sparkassen e talune Landesbank, sono addirittura preservate dalla sorveglianza centralizzata delle BCE.  Per l’intera Eurozona gli interventi per il salvataggio delle banche sono ammontati, secondo una ricognizione della BCE, a 800 miliardi di euro10. Ora con l’entrata in vigore della normativa BRRD, l’UE non permette più interventi con soldi pubblici essendo chiamati a pagare le ‘risoluzioni bancarie’ gli azionisti e i detentori di alcune tipologie di obbligazioni, oltre che i risparmiatori con depositi superiori ai centomila euro11. Liberarsi dei prestiti  deteriorati senza l’aiuto dello Stato per le banche italiane è difficile, da qui le aspre prese di posizioni di Renzi che con i centri finanziari intende mantenere buoni legami. Il ministro Padaon ha trovato un accordo con la Commissione avendo avuto il via libera per la garanzia sulla ‘cartolarizzazione delle sofferenze per immettere sul mercato finanziario i crediti deteriorati’, come ha annunciato in un comunicato ufficiale il MEF (27 gennaio). A proposito delle cartolarizzazioni, fatte tornare in auge per facilitare l’unificazione dei mercati dei capitali, la Commissione ha proposto due regolamenti.  Con la prima proposta, COM(2015)472, si mira a ‘instaurare un quadro europeo per le cartolarizzazioni’ in modo che esse risultino semplici, trasparenti e standardizzate, ciò che per definizione va contro la natura delle cartolarizzazioni, come i crediti impacchettati nei subprimes ha ben dimostrato. Con la seconda proposta di regolamento, COM(2015)473, si vogliono stabilire i requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento. Si stanno rilanciando le cartolarizzazioni, la bomba che ha fatto esplodere i mercati finanziari nel 2007 essendo esse il veicolo per la vendita di differenti pacchetti di titoli di credito, messi insieme anche più volte dai diversi emittenti, ciò che li rende incontrollabili e inaffidabili.

Nel giorno stesso della Comunicazione, la Commissione istituiva con una sua propria decisione il Comitato Fiscale – C(2015)8000 – avente il compito di contribuire con le proprie valutazioni e proposte “all’esercizio delle funzioni della Commissione nell’ambito della sorveglianza del bilancio multilaterale”, al monitoraggio dei casi particolarmente gravi “di inosservanza delle norme” e alla verifica dell’adeguatezza “dell'effettivo orientamento di bilancio a livello nazionale e della zona euro” (articolo 2). Ovviamente la Commissione si è autoinvestita della nomina del presidente e dei quattro membri del Comitato, con il solo vincolo di consultare gli Uffici nazionali delle finanze pubbliche, la BCE e l’Eurogruppo (articolo 3). Al pari di tutte le authorities europee anche per questo Comitato fiscale vige la garanzia dell’indipendenza rispetto alle istituzioni, anche rappresentative, nazionali ed europee.

Attraverso tutte queste variegate disposizioni si può seguire in tempo reale la creazione delle tecnostrutture e i modi con cui si depoliticizzano le decisioni pubbliche. Si è visto che i meccanismi del Semestre europeo sono stati resi più efficienti mediante organismi di valutazione e controllo posti al di fuori del circuito democratico: questo nuovo Comitato fiscale si aggiunge alla Commissione, all’ECOFIN, all’Eurogruppo, alle Direzioni generali, che con i loro ‘bracci preventivi e correttivi’, gli ‘alert mechanisms’, le procedure per gli squilibri eccessivi di bilancio e macroeconomici ecc. ecc., si sono sostituiti alle istituzioni rappresentative spossessate delle competenze nelle politiche fiscali, nerbo della sovranità politica.

Con un barocchismo burocratico, si tratta infatti di una ‘raccomandazione di raccomandazione’ rivolta al Consiglio, COM (2015) 601, la Commissione chiede l’istituzione di Comitati nazionali per la competitività nella zona euro per tenere sotto pressione i governi affinché attraverso le ‘riforme di struttura’ incrementino la capacità concorrenziale delle rispettive economie. Così si compie un altro passo verso l’obiettivo di un’economia‘sociale di mercato’, che deve essere però ‘competitiva’ come recita il TUE (comma 3 dell’articolo 3). Tradotta dalla lingua dell’ordoliberalismo, la disposizione del Trattato significa che i mercati sono chiamati a coordinare le produzioni di merci e servizi e a distribuire alle diverse classi sociali le quote di reddito. L’UE è una società commerciale sovranazionale, già disegnata per il livello nazionale da Adam Smith.

Contro le decisioni chiave, come quelle richiamate, non si è mai udita una voce nei Parlamenti nazionali o europeo, né si è mai letta una dichiarazione di un partito o di un sindacato contro vecchi e nuovi organismi tecnocratici che dominano la vita economica e politica. Non ci sono mobilitazioni tese a proporre la rottura dell’UE per costruire un’altra Europa retta da una Costituzione democratica scelta dai cittadini, e non dai Trattati negoziati dai governi.

I governi, tranne quello di Cameron, non osano chiedere più un referendum, forse ricordando la lezione francese e olandese del 2005 con la vittoria del no nel voto sul Trattato costituzionale; non c’è forza politica, sindacale o di movimento che si mobiliti affinché siano i cittadini a decidere non su questa o quella scelta particolare, bensì sulla permanenza di un paese nell’UE. L’incastro di Trattati, norme e sentenze – la cosiddetta Comunità di diritto – fa da base a un’oligarchia che va assorbendo le competenze sovrane nazionali eludendo i controlli a cui esse erano sottoposte, grazie alle istituzioni parlamentari e all’esercizio dei diritti fondamentali, argini nei confronti dei poteri pubblici e privati. 

Franco Russo - da Alternative per il socialismo, n. 38

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