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22/02/2016

Se la borghesia italiana si scopre euroscettica

Le mosse di Renzi dentro e contro l'Unione Europea non sono soltanto posizionamento elettorale (proprio ieri: "oggi la realtà dice che l'Europa è ferma, ha bisogno di essere rimessa in moto e anche dal punto di vista economico ha bisogno di una strategia non semplicemente incentrata sugli egoismi di qualche paese dominante che non riesce ad avere una strategia valida per tutti"). Per lui, magari, l'ossessione elettoralistica è l'aspetto principale, ma nel blocco sociale dominante in questo paese l'Unione Europea – le sue regole, i suoi obblighi, i suoi vincoli – è ormai diventata un problema, non più la soluzione.

Passata l'euforia dell'attacco al lavoro dipendente – su questo fronte la Troika ha fornito per decenni un supporto formidabile e insostituibile – l'imprenditoria e il sistema bancario nazionali si scoprono fragili, non competitivi, prede anziché corsari. E fanno dietrofront.

Lasciamo su questo punto lo svolgimento dell'analisi all'ottimo articolo di Pasquale Cicalese, pubblicato su Marx XXI, e ci limitiamo a sottolineare le conseguenze politiche di breve e medio periodo.

Fin qui, infatti, l'"euroscetticismo" era stato appannaggio della piccola borghesia con orizzonti solo locali, rappresentata politicamente dalla Lega e una parte della destra (con una diversa accentuazione anche dal Movimento 5 Stelle), e di una frazione ancora troppo piccola del movimento operaio (i movimenti dal No Debito alla campagna Eurostop). Per ragioni ovviamente opposte e antagoniste fra loro (la piccola borghesia sente il pericolo della caduta di status, la "proletarizzazione" incombente), mentre le avanguardie più attente del movimento di classe hanno visto per prime la creazione di una gabbia d'acciaio contro il lavoro dipendente, i diritti storicamente conquistati, i livelli del salario e la legittimità stessa di una rappresentanza politica e sindacale del lavoro.

Da qui in poi, a meno di improbabili – per ora – "riforme" dei trattati europei, sarà anche il blocco sociale dominante a occupare il campo dell'immaginario "euroscettico", naturalmente solo fino a quando non otterrà – se lo otterrà, magari sulla scia delle concessioni fatte alla Gran Bretagna – quel che vuole dalla Ue.

Un motivo di più per non "rinchiudersi nel locale", nel particolare, nello specifico di una qualsiasi vertenza. E di assumere invece una logica politica generale, internazionalista nelle pratiche conflittuali oltre che nell'analisi. Per agire con l'autonomia di classe indispensabile, se non ci si vuol ritrovare – com'è avvenuto altre volte in passato – col "nemico che marcia alla tua testa".

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“Si possono inoltre gestire meglio quei crediti deteriorati (quasi un terzo del totale) che fanno capo a imprese in temporanea difficoltà ma con concrete possibilità di rilancio, soprattutto con il rafforzamento della ripresa economica. È essenziale a questo fine un adeguato coordinamento tra le banche finanziatrici, che preveda anche l’intervento di operatori specializzati nelle ristrutturazioni aziendali”.

Governatore Banca d’Italia Ignazio Visco, Intervento ad Assiom Forex - Torino 30 gennaio 2016, pag, 12

“Gli industriali italiani non riuscirono a salvare il meccanismo della svalutazione. Ne presero atto e si dedicarono, nel decennio seguente l’unione Monetaria, a salvare i propri capitali. Gli investimenti crollarono di fronte alla certezza del cambio forte. Lo sciopero fiscale raggiunse vette sempre più elevate. Le imprese si indebitarono con le banche. I proventi delle esportazioni, per quanto possibile, furono lasciati all’estero. Restò alle banche chiudere il credito, decretando la fine del 25% dell’apparato industriale”.

Marcello de Cecco, Deflazione, il male sottile, Affari&Finanza, 8 febbraio 2016.
Rimane ancora quel 75% in vita, o in apnea, che dir si voglia. Per quanto? Nel Mezzogiorno non esiste più industria, il pericolo riguarda la fascia adriatica, il nord est e le ex regioni rosse, anch’esse a grosso rischio di ulteriore deindustrializzazione. Le crisi delle banche locali, da Cariferrara a Popolare Vicenza, da Banche Marche a Veneto Banca, sono il chiaro segno che l’industrializzazione del Nord est centro è ad un crocevia. Visco ritiene che possa essere salvata. I crediti deteriorati sono circa 360 miliardi, un terzo dunque sono 120.

Questo è lo stock di capitale industriale a rischio, un ammontare pari allo stock di capitale delle ex imprese pubbliche dismesse negli anni novanta. Ci sono problemi di liquidità, di sottocapitalizzazione, di cambi generazionali, di investimenti non fatti negli ultimi decenni, ma soprattutto, nello sfondo, c’è una crisi di domanda innescata dalle manovre finanziaria degli ultimi 5 anni e dalla restrizione creditizia delle banche, che potrebbe essere ancora più dura con la nuova Unione Bancaria e le nuove regole di risoluzione bancarie, il cui primo assaggio lo abbiamo visto con le quattro banche locali.

Questo stock di capitale industriale può essere rilanciato in vari modi: cambio del proprietario, più interessato a godersi la rendita dei profitti non reinvestiti (magari detenuti all’estero), apporto di capitali da fondi specializzati, tipico modo anglosassone, trasformazione del debito bancario in capitale aziendale (molto in voga, anche se non si dice), vendita ad un industriale estero o rilancio con il titolare che magari ci mette parte del suo patrimonio personale e che, con il nuovo diritto fallimentare, ha chance di condurre l’azienda fuori dalle secche.

Ma occorre che ci si creda al rilancio, occorre la ripresa economica, occorre che le banche possano aumentare i prestiti. In una parola: occorre che il quadro muti profondamente, che il governo ponga fine alla crisi della domanda.

Ma la soluzione di questi problemi cozza con il quadro normativo europeo: dal bail in alla proposta tedesca di diminuire lo stock di titoli di stato nelle banche italiane, dal Fiscal Compact ai pochi margini di flessibilità concessi (che non servono a niente), l’Europa stritola qualsiasi possibilità di rilancio economico. Ecco dunque che incomincia a far presa un certo euroscetticismo nella classe dirigente italiana.

Già i banchieri erano stati espliciti contro il bail in, ci si è messa pure la banca centrale italiana, in Parlamento è un fiorire di ordini del giorno per il rinvio o la sospensione delle regole europee dell’Unione Bancaria, Renzi al Senato si scaglia contro il Fiscal Compact, che ha “conseguenze disastrose per l’Italia” (parole sue..) e minaccia di porre il veto alla proposta tedesca di limitare l’acquisto di titoli di stato alle banche italiane.

Negli ultimi giorni si è accodata anche Confindustria, il cui centro studi il 19 febbraio ha sfornato una nota sull’unione bancaria tremendamente allarmata. In sostanza, le regole del bail in caso di crisi sistemica provocherebbero perdite immense: “i contribuenti pagherebbero primo per la perdita di valore dei loro asset; secondo con la diminuzione del reddito; terzo, con la perdita di posti di lavoro; quarto, con l’incremento della tassazione e/o con il taglio delle spesa pubblica necessari a coprire il deficit pubblico causato dal peggioramento dell’economia” (Confindustria, le nuove regole Ue sulle banche frenano l’economia, Il Sole 24 ore 20 febbraio).

Un assaggio di crisi sistemica si è avuto con la risoluzione della quattro piccole banche, ma all’ordine del giorno ci sono Mps, Popolare Vicenza, Veneto Banca e molti piccoli istituti di credito. Una stagnazione e/o una nuova recessione economica manderebbe definitivamente all’aria quel che rimane del sistema bancario e con esso il sistema industriale ancora in vita, data la natura bancocentrica dell’economia italiana.

Secondo il Foglio del 20 febbraio (I quattro sponsor della battaglia italiana all’Europa) le mosse del premier italiano contro l’Europa e la Germania avrebbero come sponsor esteri gli Usa e Putin, mentre a livello interno godrebbe dell’appoggio del Quirinale, della Banca d’Italia e delle strutture del Ministero dell’economia. Nella battaglia contro il bail in si deve ora aggiungere, oltre all’associazione dei banchieri, la stessa Confindustria.

E’ come se gran parte dell’establishment italiano avesse rinnegato il suo sfegatato filo europeismo, ma questo cambio repentino di rotta si inquadra nella guerra tra capitali con la Germania. Dopo decenni di lotta clandestina, condotta con tatticismi vari, ora la lotta si fa esplicita. La guerra di classe condotta da Renzi contro il proletariato italiano non è più sufficiente, anzi è oramai palese che è controproducente, occorre serrare le fila per far saltare in aria tutte le regole europee degli ultimi 8 anni di crisi.

In ballo ci sono 120 miliardi di stock di capitale industriale che può essere ancora salvato e la tenuta del sistema bancario, in assenza del quale crollerebbe definitivamente tutto l’apparato industriale italiano. E’ una guerra, non meno importante di quel che succede in Ucraina o in Medio Oriente. E come tutte le guerre ha morti, come ha certificato il 19 febbraio l’Istat comunicando il record di decessi e la diminuzione dell’aspettativa di vita in Italia, cosa che non succedeva dalla prima guerra mondiale.

Fino a quando c’era da bastonare il proletariato l’Ue era ben accolta, si sono fatti e disfatti governi per questo. La borghesia italiana si illudeva che si sarebbe rafforzata, ma a ben leggere il Piano Werner era ben chiaro sin dagli anni settanta che il Nord Europa, vale a dire la Germania e i suoi satelliti, avevano in mente, con l’accento verso la deflazione economica, a ridurre l’Italia ad un paese deindustrializzato, dunque era chiaro sin da allora che la borghesia industriale italiana doveva cedere il passo ai concorrenti esteri.

Ora siamo al dunque, i giochi si sono palesati. Si è utilizzata l’arma del debito pubblico nel 2011 con il contributo di quinte colonne interne, è scomparso il 25% dell’apparato industriale. Ora la nuova arma è l’Unione Bancaria e la proposta di far divieto alle banche italiane di detenere titoli di stato superiori al 25% del patrimonio, che innescherebbe al contempo crisi bancaria e da qui nuova crisi del debito pubblico. Se così fosse non rimarrebbe che poca cosa della struttura industriale. Tale scenario è ben presente presso gran parte della classe dirigente italiana e non è affatto digerita.

Ciò vuol dire che l’aristocrazia finanziaria italiana e buona parte della borghesia industriale non vuole cedere il passo, convinta di poter giocare ancora un ruolo nel mercato mondiale. Pensavano che con la deflazione salariale e la svalorizzazione del lavoro potessero farcela, ma ad un anno dal Jobs Act la produzione industriale è cresciuta di appena l’1%. Certo, ci sono deficienze strutturali, ma ormai l’Europa è vista per quel che è, un’area sotto il dominio della deflazione tedesca che con regole e regolette sta strozzando l’economia italiana, oltretutto in un contesto di non uniformità dove vige la regola del più forte e si adottano due pesi e due misure.

Ora siamo alla fase conclusiva della guerra tra capitali che può durare chissà quanto, in una guerra di logoramento che essiccherebbe qualsiasi possibilità di rilancio. Non c’è possibilità di riformare l’Ue, forse un giorno la borghesia industriale, o quel che rimane, capirà che per sopravvivere deve rovesciare il tavolo, vale a dire uscire dall’eurozona. A quel punto i giochi potrebbero riaprirsi. Il prossimo obiettivo è il rilancio di 120 miliardi di stock di capitale industriale. Entro pochi mesi sapremo se c’è possibilità che venga salvaguardato, e con esso centinaia di migliaia di posti di lavoro, altrimenti si soccomberà e a quel punto il paese diverrà la terra di nessuno. Sempre che non lo sia già.

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