L’onda moderata iraniana prosegue il suo flusso anche nell’urna e, appoggiandosi ai risultati diplomatico-economici del presidente Rohani, conquista 96 seggi per il Majlis, facendo l’en plein a Teheran: 30 eletti. Nella capitale un gran numero di giovani ha appoggiato la “Lista della speranza” animata da Reza Aref, che fu vice di Khatami da anni ostracizzato dagli ayatollah ultraconservatori. Quest’ultimi subiscono lo smacco di vedere solo 31° Gholam Haddad Adel, fedelissimo della Guida Suprema e suo consuocero, perché nella capitale parecchi sostenitori del “Fronte unito dei conservatori” si sono astenuti. 45% è la percentuale di voto a Teheran contro un abbondante 70% nazionale. Per i risultati finali bisognerà attendere qualche giorno; per ora si sa che agli indipendenti vanno 25 seggi mentre 52 saranno assegnati dopo un ballottaggio previsto ad aprile. Probabilmente la componente tradizionalista, che nel vecchio Parlamento contava 167 deputati (finora ne ha confermati 91), vedrà un drastico ridimensionamento. Uno dei cavalli di battaglia dell’asse riformista-moderato è stato il lodato accordo sul nucleare (realizzato grazie al pragmatico compromesso fra due moderati, il più aperto Rohani e il più fedele a Khamenei Larijani) che sposa il desiderio di apertura del Paese verso investimenti stranieri, commerci che creano opportunità di lavoro, rompendo un isolamento quarantennale.
Una strada già conosciuta con la presidenza di Khatami e rilanciata da alcuni suoi uomini (Reza Aref, Mousavi) che, per uscire dal proprio punitivo congelamento politico, hanno aperto contatti e collaborazione con Rohani ormai da un triennio. Così l’asse politico interno, che negli otto anni dell’epoca Ahmadinejad aveva visto prevalere gli ultraconservatori appoggiati dai moderati, vede il connubio moderati-riformisti trovare idee, voglia e gambe per camminare al fianco. In un quadro difficilissimo più all’esterno che all’interno, visto che i nuovi assetti delle istituzioni devono misurarsi sul terreno geopolitico mediorientale ed economico globale. Ma il blocco della speranza non perde l’ottimismo su tale binomio, pensando che potrà risultare il più proficuo possibile per le sorti di tutti. Anche per coloro, e sono molti pure fra i giovani, che continuano a considerare non secondario il legame con l’esperienza rivoluzionaria della Repubblica Islamica, da Khomeini ai nuovi interpreti dello Stato. Questo fattore nello scontro col blocco sunnita, nelle sue versioni filoccidentale delle petromonarchie e fondamentalista del Daesh, non decade affatto. Anzi. E lo spirito della Rivoluzione iraniana, la difesa nazionale dai subdoli giochi del Grande Satana statunitense, continuano a essere gli argomenti che gli ultraconservatori del clero e del partito dei Pasdaran oppongono agli avversari riformisti. Compresa l’accusa che l’Onda verde del 2009 fosse infiltrata dalle Intelligence occidentali e usata contro la nazione e l’intero orizzonte sciita.
Il tema continuerà e s’amplierà nel prossimo, importantissimo, passo elettorale che riguarda l’Assemblea degli Esperti, coloro che eleggeranno la nuova Guida Suprema in sostituzione di Khamenei. Un ruolo che rivede in corsa l’immarcescibile e potente volpe della politica iraniana: Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Uno dei padri della Rivoluzione, successore di Khomeini e presidente per due mandati dal 1989 al 1997. Un uomo ancor più pragmatico di Rohani, dotato di pedigree e legami con ogni componente della società iraniana: ayatollah, militari, imprenditori, commercianti e anche popolo minuto. Basta ricordare che fu accanto a Khomeini, guidò i Pasdaran nella sanguinosissima guerra contro Saddam (1980-1988), la sua ricchissima famiglia ha contatti coi maggiori gruppi di capitale sia le bonyad, sia le imprese di Stato controllate dai Guardiani della Rivoluzione. Ha un legame profondo coi bazari, il ceto medio mercantile e agli occhi degli abitanti delle città e delle aree rurali è un personaggio della tradizione che non resta chiuso nelle scuole di meditazione e preghiera, ma sa muoversi nel mondo. Un uomo scaltro, che fa molto anche per sé – cosa che gli innovatori gli contestano, come i conservatori l’accusano di aperture occidentaliste – però adeguatissimo al nuovo clima in atto con la presidenza Rohani.
I due si ritroveranno elettori nell’Assemblea degli Esperti, ma per la carica potentissima di Guida Suprema (in base al velayat-e faqih verifica le leggi del Parlamento, ha l’occhio sulla magistratura, controlla le forze armate, può censurare la stampa) può risultare più adatto per l’ottantunenne Rafsanjani. Ci sono altri nomi. Shahroudi, 67 anni. Lo scorso anno doveva diventare presidente dell’Assemblea, poi è giunto l’imprevisto ritiro (frutto sicuramente d’un intervento di Khamenei) ed è stato eletto Yazdi che ha superato Rafsanjani. Gli osservatori sostengono come Shahroudi, apprezzato fra i chierici di Qom, riceve consensi anche fra politici laici e nelle strutture militari. Ma l’anno passato s’erano anche diffuse indiscrezioni su un suo coinvolgimento in inchieste giudiziarie su fondi stornati alla Mezzaluna Rossa e utilizzati in parte per acquisti di materiale bellico. Altri fondi sarebbero finiti in un network iracheno gestito dall’ayatollah che è originario di Najaf. Questo avrebbe potuto decretare l’esclusione dalla presidenza. Come Guida meglio di lui Javadi-Amoli, avanti con gli anni (82) ma forte dei consensi di alcune bonyad che controllano il ramo energetico. C’è poi l’ayatollah Sistani, 85 anni, iracheno, la cui elezione potrebbe essere letta dal mondo sunnita come una provocazione pansciita. Mossa, comunque, contemplabile in un Medio Oriente serrato in un confronto-scontro su tutti i terreni. Chi, dopo le tendenze del voto di venerdì, sembra ai margini è la triade Jannati, Yazdi, Meshab-Yazdi. Troppo anziano il primo (88 anni) e sbilanciati nel passato gli altri, all’epoca sostenitori del presidente-basij Ahmadinejad. Insomma il rebus del futuro Iran passa per quest’elezione. Ma, per i prevedibili compromessi fra le parti, potrebbe non risultare breve.
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