Festa grande ieri a Bengasi per celebrare la vittoria delle forze armate libiche in città contro gruppi islamisti radicali. Le truppe del governo di Tobruk sarebbero avanzate nell’area di al-Laithi costringendo alla ritirata i miliziani islamici.
A rivelarlo è l’Ap citando fonti anonime militari. L’avanzata
dell’esercito sarebbe stata resa possibile anche grazie al contributo
francese. Secondo fonti locali, infatti, i soldati di Parigi, di stanza
nella base aerea di Benina, avrebbero attaccato le milizie islamiche
coordinandosi con le forze libiche. I dettagli della notizia sono ancora
poco chiari: non è noto il numero dei militari transalpini che
avrebbero partecipato all’azione, né si capisce se, in realtà, ad
operare siano state forze speciali o mercenari. Finora Parigi non ha
commentato la notizia.
Se al momento è difficile poter stabilire se siano presenti o
meno in città anche le truppe di Hollande, non è un segreto però che
già da tempo in Libia sono operative forze occidentali. Lo
scorso anno Washington ha ammesso di aver mandato truppe speciali nello
stato nordafricano. Secondo alcune indiscrezioni (mai confermate dai
protagonisti), ad unirsi agli statunitensi sarebbero stati anche gli
inglesi e i francesi.
Che gli occidentali vogliano intervenire di nuovo
militarmente in Libia (dopo la fallimentare operazione Nato nel 2011)
appare ormai un dato certo. Ieri il primo ministro italiano Matteo Renzi
ha detto che l’Italia farà la sua parte all’interno di una coalizione a
guida Usa che fermerà “qualunque attacco terrorista degli estremisti
dello Stato Islamico”. Intervistato dalla stazione radio Rtl 102.5, il
primo ministro ha dichiarato che le autorizzazioni ad eventuali raid
aerei in Libia saranno date “caso per caso”. “Se si tratta di fare
iniziative contro dei terroristi – ha spiegato – c’è uno stretto
rapporto tra noi, gli americani e gli altri alleati. E di conseguenza
siamo in piena sintonia con i nostri partner internazionali”. Sia
chiaro: “la priorità è sempre e comunque quella di una risposta
diplomatica”. Tuttavia, “se ci sono delle evidenze che ci sono dei
potenziali attentatori che si stanno preparando, l’Italia fa la sua
parte con tutti gli altri”. Sulla questione è intervenuto anche il ministro Gentiloni. Secondo
il titolare del dicastero degli esteri, la possibilità che le basi
aeree vengano utilizzate per operazioni antiterrorismo “non è preludio a
un intervento militare”. Il ministro ha poi confermato che le richieste
saranno valutate caso per caso dal ministero della Difesa, ma ha
sottolineato come l’utilizzo delle basi non richieda “una specifica
comunicazione al parlamento”.
L’avanzata delle truppe libiche a Bengasi ha avuto una conseguenza
positiva: numerose famiglie, fuggite dalla città a causa dei due anni di
scontri tra forze di Tobruq e gli islamisti radicali, sono potute
ritornare nuovamente nello loro case nel quartiere di al-Laithi. A
rallegrarsi per le notizie giunte ieri sarà stato sicuramente il generale Khalifa Haftar.
Comandante in capo delle forze armate di Tobruq, Haftar è una figura piuttosto controversa all’interno del panorama politico libico: se la
sua immagine anti-islamista riscuote molto successo nell’est del Paese,
non si può dire la stessa cosa a Tripoli dove il generale ha molti
nemici. “Siamo entrati nella maggior parte delle aeree controllate dai
gruppi terroristi a Laithi” ha detto esultante al Afp una fonte militare
che ha preferito restare anonima. Il portavoce di Haftar ha poi reso
noto che a breve l’esercito annuncerà ufficialmente la liberazione del
distretto.
Se sul piano militare si registrano dei piccoli avanzamenti,
dal punto di vista politico resta lo stallo. La Libia continua ad avere
due parlamenti: uno a Tobruq (riconosciuto internazionalmente) e un altro a Tripoli guidato dalla coalizione “Alba libica“.
I tentativi dell’Onu per giungere ad un accordo tra le due parti non
hanno finora prodotto risultati concreti sul terreno a causa soprattutto
delle divisioni degli attori locali. Ieri, ad esempio, i parlamentari
di Tobruq non hanno raggiunto il numero sufficiente (89 parlamentari)
per votare il governo di unità nazionale proposto dalle Nazioni Unite.
L’esecutivo di Accordo nazionale, che prevede 32 ministri scelti dai
due parlamenti, è nato sulla carta lo scorso dicembre in Marocco, ma non
è ancora riuscito a ottenere la fiducia di Tobruq ufficialmente
contraria al numero eccessivo dei membri del governo. Un
tentativo di conciliazione è stato fatto la scorsa settimana dal
Consiglio presidenziale (anch’esso figlio dell’accordo di dicembre) che
ha proposto di ridurre a 18 i membri del governo. La decisione non ha
però finora prodotto i risultati sperati.
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