di Michele Paris
La mossa presa dal presidente Obama questa settimana per rilanciare
il piano di chiusura del lager di Guantánamo è poco più di una manovra
propagandistica, oltretutto tardiva, che ha pochissime chances di
successo e che non farebbe comunque nulla per mettere fine agli abusi
legali istituzionalizzati dal governo degli Stati Uniti nel corso della
cosiddetta “guerra al terrore”.
La proposta di smantellamento del
carcere sull’isola di Cuba è stata inviata martedì dalla Casa Bianca al
Congresso di Washington, con un’iniziativa che i giornali USA hanno
descritto come il tentativo del presidente di mantenere una promessa che
aveva fatto all’indomani del suo insediamento nel gennaio del 2009.
In
un intervento pubblico durato poco più di un quarto d’ora, Obama ha
riconosciuto che il piano sarà di difficile attuazione e ha ricordato
gli ostacoli posti soprattutto dallo stesso Congresso alla chiusura e al
trasferimento in altri paesi o in territorio americano dei detenuti
rimasti.
Obama ha anche accennato a una delle ragioni principali
che hanno riportato la questione di Guantánamo all’ordine del giorno del
suo governo, ovvero il danno di immagine per un paese che, pur basando
la propria politica estera in gran parte sulla violazione del diritto
internazionale, riesce a conservare una residua legittimità agli occhi
delle popolazioni mondiali promuovendosi come difensore della democrazia
e dei diritti umani.
Nel raggiungere questo obiettivo, il
presidente americano ha affermato di essere pronto a muoversi
unilateralmente e a utilizzare i poteri assegnatigli dalla Costituzione,
in caso di mancata collaborazione da parte del Congresso, anche se non è
per nulla chiaro quali siano gli spazi di manovra della Casa Bianca in
questo senso.
La maggioranza Repubblicana al Congresso è
attestata su posizioni diametralmente opposte a quelle di Obama in
merito a Guantánamo, mentre i candidati alla presidenza hanno più volte
dichiarato non solo di voler mantenere in vita il carcere ma anche di
aumentarne la popolazione, nonché di ricorrere a metodi tortura nei
confronti dei suoi “ospiti”.
Il progetto di Obama non è stato
comunque corredato di troppi particolari e più che altro si tratta di
una serie di iniziative che verrebbero implementate se dovesse essere
superata la resistenza del Congresso. Sostanzialmente, il piano si basa
sull’individuazione di alcuni paesi esteri che dovrebbero ricevere
alcune decine di detenuti il cui trasferimento è già stato approvato dal
governo USA. Quelli considerati più pericolosi – tra i 30 e i 60 –
sarebbero invece spediti in varie carceri di media o massima sicurezza
negli Stati Uniti.
Le strutture prese in considerazione sono 13,
tra cui in Kansas, Colorado e South Carolina, i cui rappresentanti al
Congresso hanno peraltro già manifestato tutta la loro contrarietà
all’ipotesi avanzata dalla Casa Bianca. Come ha ricordato Obama, durante
la campagna elettorale del 2008 esponenti di spicco del Partito
Repubblicano, come l’allora presidente Bush e il candidato alla sua
successione, John McCain, erano a favore della chiusura, ma da allora il
baricentro politico americano ha fatto registrare un nettissimo
spostamento a destra e una chiara maggioranza del Congresso intende ora
mantenere in vita la famigerata struttura detentiva off-shore.
L’ostacolo
principale alla chiusura del carcere è rappresentato appunto da una
legge del Congresso che vieta il trasferimento dei detenuti di
Guantánamo in territorio americano, anche per essere sottoposti a
processi in ambito civile.
L’insistenza
di Obama e dei suoi sostenitori per convincere la maggioranza alla
Camera e al Senato a lasciar cadere il divieto al trasferimento non ha
comunque nulla a che vedere con il desiderio di chiudere un capitolo
oscuro della storia americana e di veder trionfare il diritto.
Anche
se le decine di prigionieri che vivono nel limbo a Guantánamo, senza
accuse formali, processi o tanomeno condanne, fossero trasferiti in un
carcere in territorio americano, la natura arbitraria della loro
detenzione non cambierebbe infatti di una virgola.
A far notare
questo punto è stato, tra gli altri, l’avvocato David Remes, legale di
13 cittadini yemeniti rinchiusi a Guantánamo, secondo il quale “il
presidente non intende chiudere [il carcere], ma solo spostarlo negli
Stati Uniti”.
Di fatto, se anche Obama riuscisse a superare la
resistenza del Congresso, il suo piano finirebbe per sanzionare la
detenzione indefinita in territorio americano di sospettati di
terrorismo, le cui accuse a loro carico non sono mai state né potranno
mai essere dimostrate in un’aula di tribunale.
Inaugurato
dall’amministrazione Bush nel 2002, il lager di Guantánamo era giunto a
ospitare quasi 800 detenuti, la maggior parte dei quali rapiti
illegalmente da forze di sicurezza o da mercenari in Pakistan e in
Afghanistan per essere poi venduti agli Stati Uniti. Il carcere era
diventato ben presto il simbolo stesso dei crimini americani nel quadro
della “guerra al terrore”.
Per giustificare la detenzione
illegale e le torture commesse, l’amministrazione Bush aveva inventato
la definizione di “nemici in armi” da assegnare ai sospettati di
terrorismo, così da negare a questi ultimi sia i diritti costituzionali
sia le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri
di guerra.
All’arrivo di Obama alla Casa Bianca, la popolazione
del carcere era scesa a 242 e da allora è costantemente diminuita fino
ai 91 prigionieri odierni. Centinaia di “ospiti” di Guantánamo sono
stati rinchiusi per anni, spesso distrutti fisicamente e
psicologicamente, e poi rilasciati senza spiegazioni o risarcimenti.
Il
governo americano ha creato inoltre in questi anni un tribunale
militare speciale per processare alcuni dei detenuti e dare
l’impressione di volere rispettare i loro diritti. In realtà, questi
procedimenti, che riguardano attualmente una decina di prigionieri, sono
una farsa, visto che gli accusati godono di ben poche delle garanzie
legali previste dalla legge USA.
La tesi sostenuta infine da
coloro che elogiano comunque il presidente Obama per avere cercato di
chiudere il lager di Guantánamo di fronte alla resistenza del Congresso è
del tutto fuorviante. A dimostrarlo ci sono i precedenti accumulati
dall’amministrazione Democratica in questi anni.
Non solo Obama
ha fatto di tutto per proteggere ed evitare l’incriminazione dei
responsabili di rendition e torture ai danni di sospettati di
terrorismo, ma l’alternativa scelta alle detenzioni “extra-giudiziarie” è
stata di gran lunga peggiore.
Il
governo americano non ha aggiunto un solo detenuto alla popolazione di
Guantánamo dal 2009 soltanto perché le procedure che eventuali nuovi
arresti avrebbero comportato sarebbero state eccessivamente gravose e
avrebbero perpetuato un sistema profondamente impopolare.
Il
presidente Obama e l’apparato della sicurezza nazionale USA hanno così
optato per il drastico ampliamento del programma degli assassini mirati
con i droni, anch’esso avviato da George W. Bush. In sostanza, i
sospettati di terrorismo non vengono più rapiti o arrestati, poi
eventualmente torturati e spediti a Guantánamo, ma finiscono su una
lista nera e il presidente in persona, senza passare attraverso un
tribunale o un procedimento che possa ragionevolmente essere definito
“legale”, decide in totale segretezza chi di loro debba essere
letteralmente fatto a pezzi da un drone.
Il grado di precisione
delle operazioni con i velivoli senza pilota americani in paesi come
Pakistan, Afghanistan, Somalia, Yemen e Libia è stato valutato da
numerose indagini di organizzazioni a difesa dei diritti umani in questi
anni, le quali hanno documentato le migliaia di vittime civili
innocenti, quasi mai riconosciute o considerate semplicemente come
inevitabili “danni collaterali”.
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