Il bilancio definitivo è arrivato stamattina: 92 morti in una serie
di attacchi dentro e intorno Baghdad. L’ennesima strage targata Isis si è
abbattuta ieri sulla capitale irachena a dimostrazione della libertà di
movimento di cui godono tuttora le cellule del gruppo islamista. L’Isis
non è chiuso nelle roccaforti a ovest, da Mosul a Fallujah, ma si
spinge oltre sfruttando le difficoltà che le forze di sicurezza irachene
hanno nel frenarne l’avanzata.
Ieri l’esplosione di una motocicletta parcheggiata ha colpito
il mercato Mredi, nel quartiere sciita di Sadr City, subito seguita da
un attentatore suicida che si è fatto saltare in aria mentre arrivavano i primi soccorsi: 73 vittime. Contemporaneamente
altri attacchi colpivano la periferia della capitale (7 morti) mentre
le forze di sicurezza si scontravano con miliziani islamisti intorno Abu
Ghraib (12 morti): l’Isis ha preso il controllo di un silos di grano e ha attaccato una vicina base militare.
Ha poi rivendicato l’attacco a Sadr City, con un comunicato online
nel quale ripeteva di avere nel mirino gli apostati, ovvero la comunità
sciita. Risponde il premier al-Abadi, su Facebook: “Non ci fermeranno”.
Ma la preoccupazione è concreta: lo Stato Islamico sa arrivare con i
kamikaze nel cuore di Baghdad, ma soprattutto è in grado di
organizzare operazioni coordinate ad Abu Ghraib, territorio alle porte
della provincia di Anbar a ovest ma anche primo passo verso la capitale,
ad est, a metà strada lungo la direttrice Fallujah-Baghdad. A
fermarne l’avanzata sono state ancora una volta le milizie paramilitari
sciite Hashed Shaabi, semi indipendenti dal governo e sempre più
potenti nel paese, sia dal punto di vista militare che politico.
Un’altra fronte di preoccupazione perché il più efficace freno al
sedicente califfato non è ancora l’esercito di Baghdad, ma le decine di
migliaia di miliziani sciiti, controllati dall’Iran e responsabili di
numerose violazioni nei confronti della popolazione sunnita. La frattura
interna al paese è visibile a occhio nudo e prospetta un futuro di
divisione. L’ultima settimana ne è stata la dimostrazione: prima la
proposta sunnita di federalismo amministrativo e poi la manifestazione
di massa dei sostenitori del religioso sciita Moqtada al Sadr.
Venerdì un milione di sciiti sono scesi in piazza Tahrir a
Baghdad per protestare contro la corruzione del governo centrale,
portati in strada da al-Sadr, leader dell’Esercito del Mahdi
che combatté l’occupazione statunitense dieci anni fa e ora a capo delle
cosiddette Brigate della Pace, ricostituite in chiave anti-Isis e
protagoniste della ripresa di Tikrit.
Al-Sadr resta una figura centrale nel panorama politico iracheno,
uomo di grande carisma capace di mobilitare centinaia di migliaia di
civili e combattenti. Una forza che gli giunge anche per la posizione
assunta nei confronti del governo di Baghdad, accusato di fondarsi su un
sistema di corruzione quasi istituzionalizzata. Venerdì ne è stato un
esempio: i sostenitori di al-Sadr hanno mandato su spinta del
leader un ultimatum all’esecutivo di al-Abadi perché concretizzi le
riforme che da mesi promette di realizzare. Un pacchetto di leggi che
al-Abadi ha enormi difficoltà a far diventare realtà a causa delle
resistenze interne, di un sistema istituzionale che per decenni
si è fondato su corruzione e clientelismo e che ha fatto dell’Iraq uno
dei primi paesi al mondo nella poco onorevole classifica del radicamento
della corruzione interna.
Ma al-Sadr non punta solo alle riforme interne. Tra le richieste
mosse al governo c’è l’inclusione delle milizie sciite nell’esercito
nazionale, che se da una parte le renderebbe più controllabili,
dall’altra darebbe loro una legittimizzazione politica in grado di
influenzare direttamente le scelte del futuro Iraq.
Dall’altra parte sta il blocco sunnita che inizia a muoversi
per ottenere l’autonomia necessaria a seppellire le discriminazioni che
da anni denuncia. La scorsa settimana l’Hcc, l’Alto Comitato di
Coordinamento, blocco di 13 partiti sunniti presenti in parlamento, ha
proposto un piano di divisione federale del paese, ovvero la creazione
di una regione autonoma sunnita a ovest. Un modello simile a
quello del Kurdistan iracheno: “Questo garantirebbe stabilità, unità e
la continuazione dell’attuale sistema politico e rimedierebbe ai
problemi e gli errori”, ha detto Osama al-Nujaifi, presidente dell’Hcc,
che sottolinea come province autonome permetterebbero di riorganizzare i
rapporti con il governo centrale e di distribuire l’autorità.
Un’autorità, dice l’Hcc, che finora è stata esercitata esclusivamente
dal governo sciita, negando diritti fondamentali alla componente
sunnita in campo politico, economico, commerciale. Per molti,
discriminazioni che hanno spinto ex baathisti e giovani sunniti tra le
braccia dell’Isis.
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