Nadeem Center deve chiudere. Questo dicono gli uomini del generale e per ora lo fanno con le buone: un avviso al destinatario. L’Ong creata, fra gli altri, da Aida Seif al-Dawla avrebbe violato le regole (sic). Quali regole non è dato sapere, c’è solo un vago riferimento a recenti normative emanate dal ministero della Sanità. Il Nadeem opera in Egitto dall’inizio degli anni Novanta fornendo sostegno medico e psicologico alle vittime di tortura. La tortura è pratica diffusa fra i vecchi e i nuovi raìs tutti provenienti dalle file delle Forze Armate, la lobby che fa di controllo, lusinga, sopraffazione dei cittadini un modello di vita quotidiana. Nei primi sette anni di attività (1993-2000) l’Ong ha trattato 1100 vittime di violenza fisica e psicologica praticate verso due terzi di popolazione maschile e un terzo femminile, ma c’erano anche casi che riguardavano bambini. Nadeem, che ha sede in una zona centrale del Cairo (non lontano da Tahrir), aderisce a una rete che s’occupa di questi problemi in vari paesi dell’area mediorientale e ha collegamenti con la Società internazionali per la salute e i diritti umani.
Con gli anni l’Organizzazione non governativa cairota ha rivolto le proprie attenzioni al problema della violenza sulle donne, questione che riguarda la mentalità maschilista tuttora assai diffusa, ovviamente non solo in Egitto. Già negli anni passati il Nadeem Center aveva dovuto fare i conti con la censura soft che lo Stato pone a simili iniziative, paralizzandole attraverso le strettoie dei controlli del ministero degli Affari Sociali. Quest’ultimo usa cavilli burocratici, richieste di autorizzazioni che giacciono inevase in uffici su cui agisce la lunga mano di governo e polizia, spesso bipolarmente orientate a bloccare inchieste e denunce. Ma ora che le supposizioni di detenzioni non registrate ufficialmente, anticamera di scomparse definitive, diventano una certezza per il moltiplicarsi di casi che coinvolgono ogni oppositore al regime, ecco che presenze come il Nadeem Center diventano intollerabili. Alla stregua di quella del ricercatore-divulgatore Giulio Regeni, eliminato senza porsi molti problemi di gestione geopolitica.
Le cicatrici sul suo cadavere non differiscono da quelle denunciate dall’organismo che Sisi ora decide di cancellare. L’Ong raccoglieva notizie e svelava il volto di quest’Egitto che prima di assassinare, impone terrore e umiliazione. I documenti sulle torture a sfondo sessuale verso donne e uomini, fotografati e filmati, mirano a incrinare la solidità identitaria delle vittime, visto che si minaccia di divulgare le immagini fra parenti e conoscenti. Il presidente amico dell’Occidente vuole che non se ne parli. I governi occidentali glielo permettono. Eccezion fatta per il risveglio di alcuni media, per ora l’unica voce critica sull’omicidio Regeni e sulle sparizioni nelle carceri egiziane appartiene ad Amnesty International. Gli inquilini dei nostri palazzi Chigi e Farnesina promettono chiarezza e giustizia, ma non obiettano nulla al vuoto totale offerto dal Cairo. Forse per quella coscienza nera e quella prossimità ai metodi spicci e alla tortura che vedevano l’Italia in prima fila nelle extraordinary rendition. Quelle per cui, oggi, la Corte di Strasburgo ci condanna. E che qualcuno Oltreoceano può sempre richiederci.
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