Con cadenza regolare telegiornali e quotidiani di regime ci parlano di sevizie, sequestri, prepotenze compiuti nei confronti di anziani e disabili rinchiusi in qualche “casa di riposo”. Scene orrende, da lager nazista o camera di sicurezza egiziano-turca, riprese da telecamere nascoste durante indagini non particolarmente complicate ma di grande impatto visivo. Poi tutto torna esattamente come prima, e altre “case di riposo” – prima o poi – si offrono per il sequel dello stesso telefilm dell'orrore.
I giornalisti mainstream non si soffermano più di tanto sui dettagli strutturali di questo commercio di fine-vita, sul ripetersi sempre uguale dello stesso canovaccio; preferiscono buttarla in moralismo spicciolo, formato di frasi fatte, circolari, ottime per far sentire tanto buono e migliore chi – seduto davanti allo schermo – assiste impotente a queste scene.
Nel diluvio di immagini che affollano i nostri occhi di telespettatori, quelle sevizie inflitte a dei prigionieri senza forze si mescolano a quelle di qualche dipendente pubblico che timbra al posto di un collega, a qualche caso di “malasanità” dai contorni mai troppo precisi. Un blob continuo che dovrebbe stimolare “indignazione”, ma che a lungo andare produce invece assuefazione. Come l'assunzione a piccole dosi di un veleno.
Per esempio, non si dice mai, in nessun servizio, che si tratta sempre di strutture “di cura” private. Debitamente autorizzate da qualche organismo amministrativo, che non si cura ovviamente mai di controllare se il “servizio” offerto sia adeguato o almeno allineato agli standard regolamentari. Come se l'imprenditore, proprietario e percettore delle rette per ognuno di quei disgraziati torturati non fosse responsabile in prima persona, come capofila, di quel che avviene lì dentro.
Singolare, vero? Veniamo informati di quanti schiaffi sono stati distribuiti da questo o quell'operatore delle pulizie “promosso sul campo” a infermiere (per risparmiare sullo stipendio di un infermiere vero), da questo o quell'”assistente” con funzioni "dirigenziali". Ma nulla che ci illumini sulla ben strana organizzazione del lavoro in questi luoghi di accompagnamento – tra grandi sofferenze – alla morte.
Non ci sono quasi mai dei medici, solo raramente degli infermieri qualificati. I “responsabili” di queste strutture sono quasi sempre dei semplici amministratori che tengono sotto controllo i conti, ma non si occupano – né preoccupano – di come venga gestito il “servizio” dal punto di vista medico o assistenziale.
La crudeltà dei trattamenti, in questo modo, viene addebitata a una piccola umanità senza onore, desensibilizzata, indifferente e seriale come un kapò da campi di concentramento. “Mele marce”, si usa dire, che non devono mettere il discussione il modello di business.
Singolare, davvero singolare. Il modello di business consiste infatti nel prendere un immobile, di grandezza variabile, riempirlo di esseri umani che per vari motivi non possono essere assistiti dai parenti o accolti nelle strutture del Servizio sanitario nazionale, assumere un personale secondo il criterio del salario più basso (quindi senza alcuna qualifica professionale), e chiudere la porta. Quel che accade, accade. All'imprenditore di turno non gliene può fregare di meno. Giusto quel tanto da non finire in televisione, ovvio. Ma è difficile evitare questo rischio, se il criterio è il massimo risparmio nelle spese e il massimo profitto estratto pro capite dagli “ospiti”.
Come per i lager, insomma, il dna criminale sta nell'organizzazione. Capitalisticamente perfetta e umanamente infame. Un'organizzazione che seleziona, crea, deforma, costruisce gli elementi individuali più “adatti” a svolgere quel compito orrendo.
La banalità del male, il torturare senza sentirsi per questo un mostro, è il frutto obbligato di un sistema “produttivo” che scarta come inutile, inservibile, non sfruttabile un essere umano privato per qualunque ragione delle forze, dell'autonomia, dell'intelligenza. Ma che può comunque essere “messo a valore”, come un rifiuto speciale da smaltire.
Non stiamo parlando di alieni. Gratta la superficie dell'impresa e ci troverai un nazista in borghese. Col suo seguito di volenterosi kapò.
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