In Spagna "probabilmente ci saranno elezioni anticipate il 26 giugno". E’ quanto ha detto ieri il premier uscente spagnolo, il popolare Mariano Rajoy, al primo ministro britannico David Cameron a margine del summit dell’Unione Europea in corso a Bruxelles. Che vada a finire come Rajoy dice è quanto spera la destra spagnola, uscita vincitrice ma ampiamente ridimensionata dal voto del 20 dicembre e non in grado di formare una maggioranza di governo. Che potrebbe andare, ma i se e i ma sono tanti, ad una grande ammucchiata formata da praticamente tutti gli altri partiti.
Da nove settimane ormai le forze politiche presenti alle Cortes sono impegnate in trattative finora infruttuose che non sono riuscite a dare un governo al paese che, insieme a Grecia, Irlanda e Portogallo ha ricevuto il trattamento più spietato da parte della Troika e del truce meccanismo di governance dell’Unione Europea.
La novità di questi ultimi giorni è che Podemos ha accettato ufficialmente la proposta avanzata dal leader di Unità Popolare (la coalizione guidata da Izquierda Unida), Alberto Garzòn, di trattare per formare un governo che sia guidato dai socialisti del Psoe. Alle trattative, oltre ai tre partiti menzionati, partecipano anche i deputati della formazione Compromis eletti nella regione di Valencia. Per ottenere i voti necessari e un grado minimo di stabilità, ammesso che le quattro formazioni raggiungano la quadra, la maggioranza dovrebbe poter contare anche sul sostegno o quanto meno sulla sistematica astensione dei nazionalisti catalani e su quella dei deputati di Ciudadanos, formazione affermatasi alle recenti elezioni come ‘serbatoio’ di destra dei voti in fuga dal Partito Popolare ed in parte dal Partito Socialista, cardini del sistema bipolare scossi negli ultimi anni dagli scandali per corruzione e dalle proteste dei movimenti contro i tagli, l’austerity e il massacro sociale.
Ciudadanos, fondato e guidato da Albert Rivera, è una formazione ultraliberista in economia, oltranzista in tema di sostegno all’Unione Europea e dalla forte identità nazionalista spagnola. Gli stessi tratti che, leggermente attenuati, caratterizzano da sempre la linea politica del Psoe. Eppure tanto Podemos quanto Izquierda Unida giustificano la loro disponibilità a sostenere un esecutivo guidato dal socialista Sanchez come una scelta obbligata per cacciare la destra postfranchista dal potere e parlano della possibilità di dar vita ad un ‘governo progressista’. “Abbiamo la responsabilità morale di provare a formare un governo di alternativa” ha affermato Alberto Garzón, leader della Sinistra Unita che alle scorse elezioni ha ottenuto solo due seggi in parlamento (contro gli 11 della precedente legislatura). A Podemos Garzòn ha chiesto di tenere duro sulla proposta di far tenere un referendum sull’indipendenza catalana: “Quel referendum bisogna difenderlo, mantenerlo, ma non va posto come una linea rossa più importante della lotta alla disuguaglianza o alla povertà”. In realtà né IU né Podemos sono a favore della separazione di Barcellona e della fondazione di uno stato catalano indipendente, progetto difeso dai partiti indipendentisti, ma sostengono il principio del diritto all’autodeterminazione delle nazionalità imprigionate nello Stato Spagnolo. Il problema è che la costituzione spagnola – scritta con il concorso dei fascisti riciclatisi alla fine degli anni ’70 dopo la trasformazione del regime franchista in monarchia parlamentare – non consente alcun referendum che non coinvolga tutta la popolazione dello Stato, e comunque sancisce “l’indivisibilità della patria”. Per organizzarlo, quindi, occorrerebbe andare previamente ad una riforma costituzionale impensabile in un quadro politico e istituzionale dominato dai partiti centralisti. Ed infatti oltre ai temi di politica economica – austerity brutale contro austerity dal volto umano – è proprio il tema dell’atteggiamento da tenere nei confronti delle rivendicazioni catalane (e basche) che rende più difficile la formazione di una stabile maggioranza di governo che comprenda Psoe, Podemos, Iu, Ciudadanos e altre formazioni locali. Non solo il partito di Albert Rivera – nato in Catalogna nove anni fa proprio per bilanciare l’ondata indipendentista montante e divenuto la carta di riserva del bipartitismo spagnolo alle ultime elezioni – è contrario ad ogni ipotesi di devoluzione, seppur parziale, nei confronti di Barcellona, ma anche dentro al Partito Socialista il segretario Pedro Sanchez è contestato dai baroni regionali del partito che si dichiarano indisponibili ad una collaborazione con Podemos e a maggior ragione ad ogni ipotesi di accordo con gli indipendentisti catalani.
Finora i socialisti trattavano separatamente sia con Podemos sia sul fronte opposto con la nuova destra di Ciudadanos, suscitando le ire di Pablo Iglesias che però nei giorni scorsi ha accettato di sedersi al tavolo del negoziato con Pedro Sanchez rimuovendo di fatto il veto opposto precedentemente di fronte all’ambiguità del Psoe. Podemos insiste sulla formazione di un esecutivo con il socialista Sanchez alla guida e Iglesias nella carica di vicepremier, e chiede anche sei dicasteri. Una condizione che i 'baroni' del Psoe hanno già dichiarato inaccettabile rendendo le trattative sulla formazione del nuovo governo una corsa ad ostacoli. Eventuali elezioni anticipate, stando ai sondaggi diffusi nelle ultime settimane, lascerebbero sostanzialmente invariati i rapporti di forza attuali tra le diverse forze politiche. Ad avvantaggiarsene leggermente sarebbero Podemos, che eroderebbe qualche consenso ai socialisti, e sul fronte opposto Ciudadanos, che indebolirebbe leggermente il Partido Popular.
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