di Hassan ‘Ulleiq – al-Akhbar
Con il sostegno degli alleati, l’esercito siriano è avanzato su più fronti. È sempre più vicino a un delicato obiettivo strategico: accerchiare le aree controllate dall’opposizione ad Aleppo e isolare la città dalle campagne circostanti e dai confini con la Turchia. Finora la città è stata centrale nei piani elaborati per il futuro della Siria dall’asse turco/israeliano/saudita (spalleggiata dagli USA): dal rovesciamento del regime attraverso pressioni più o meno dirette, fino alla spartizione de facto del Paese.
La ripresa di Aleppo, che sembra ormai imminente, unita alle vittorie riportate contro l’ISIS nelle zone rurali a est e in quelle delle province di Latakia, Homs, Damasco e Der’a, gioca a favore dell’esercito siriano. A questo punto, sarebbe logico attribuire al Segretario di Stato Statunitense John Kerry la dichiarazione ‘le opposizioni armate saranno sconfitte nel giro di qualche mese’, anche senza poterne dimostrare l’effettiva paternità.
La scia positiva dell’esercito siriano potrebbe essere arrestata solo da un evento clamoroso, come accadde nel 2014 quando l’ISIS occupò Mosul e vasti territori dell’Iraq e della Siria, minacciando la presa di Baghdad, Irbil e Samarra, raggiungendo le zone rurali di Damasco e Latakia, e spingendosi fino ai confini tra Iraq e Iran. Cosa potrebbe accadere, adesso? L’asse non può semplicemente restare a guardare lo sviluppo degli avvenimenti. La prima reazione è stata la minaccia di un intervento di terra, in particolare da parte di Arabia Saudita, Emirati e Turchia (con l’appoggio del Ministro degli Esteri del Qatar, arrivato nella giornata di domenica) sotto la bandiera della lotta all’ISIS.
La Turchia è mossa da ragioni legate a interessi specifici. Teme che i Curdi del versante siriano vengano schierati lungo il confine, da Hasaka a Idlib, ad eccezione della ‘tasca’ tra Jarablus e ‘A’zaz, controllata dall’ISIS e da fazioni che godono dell’appoggio turco.
Dopo aver distrutto ogni possibilità di raggiungere un accordo con i Curdi del suo Paese, Recep Tayyip Erdogan ha compromesso anche la proficua rete di relazioni che aveva sviluppato con le frange militari e i leader politici dei Curdi Siriani. [Saleh Muslim, capo del Partito dell’Unione Democratica Curda (PYD) si era recato ad Ankara nel 2013 e nel 2014: l’incontro con le delegazioni turche aveva avuto esito positivo].
La Turchia vuole occupare parte di questa ‘tasca’ di territorio, con il pretesto di impedire ai Curdi di assumerne il controllo e di assicurare una certa continuità a tutti i territori di frontiera. Ma Erdogan non si limita all’argomento della ‘sicurezza nazionale’ e aggiunge una preoccupazione di stampo umanitario: la creazione di un cordone di sicurezza per i rifugiati siriani, usata per giocare sul desiderio europeo di arginare alla base il flusso di profughi.
Dopo i bombardamenti turchi sulle zone che i Curdi Siriani hanno liberato da al-Qa’ida e dai suoi alleati nei giorni scorsi, è intervenuta l’amministrazione USA. Il Vice-Presidente Joe Biden ha suggerito questa formula: se la Turchia approva il cessate il fuoco, impediremo ai Curdi di espandersi lungo tutto il confine. Ma le Unità di Protezione Popolare, ala militare del PYD Curdo, con la copertura aerea da parte dei Russi, non si sono fermati nella loro avanzata.
È Washington che sta tirando i fili dell’alleanza turco/saudita. Il Ministro degli Esteri Saudita ‘Adel al-Jubeir lo ha dichiarato espressamente ieri, quando ha detto che sarebbero stati gli Stati Uniti (da lui definiti “leader della coalizione”) a decidere l’eventuale ingresso delle forze di terra dell’Arabia Saudita in Siria per contrastare l’ISIS. Qualche giorno prima, nel corso di una deposizione dinanzi al Comitato dei Servizi armati del Congresso, l’ufficiale più alto in grado dei servizi americani, il Direttore dell’Intelligence Nazionale James Clapper, e il Direttore della Defense Intelligence Agency, Vincent Stewart, hanno esposto le loro valutazioni in merito alle capacità delle forze di terra Saudite. In buona sostanza, non le hanno ritenute in grado di contrastare l’ISIS in operazioni di terra. E sebbene abbiano elogiato l’esercito degli Emirati, ‘che ha svolto un ottimo servizio in Yemen’, hanno aggiunto che si tratta di uno Stato troppo piccolo per sostenere il peso di due guerre contemporaneamente. Inoltre hanno dichiarato che i Sauditi e gli Emirati avrebbero auspicato l’invio di truppe da parte degli Stati Uniti per contrastare l’ISIS in Siria e in Iraq.
Si potrebbe dire che gli Americani, che hanno faticosamente raggiunto un accordo sul cessate il fuoco in Siria, non vogliano comprometterlo per i ‘capricci’ dei loro alleati in Medio Oriente. La guerra che vuole Washington è unicamente contro l’ISIS. Ma questa guerra assume anche una dimensione strategica: le forze ‘Arabe e Islamiche’ dovranno sostituirsi all’ISIS nelle aree che attualmente occupa in Iraq occidentale e in Turchia orientale. Questo si tradurrebbe in un’entità de facto nel cuore di Stati che mantengono un asse di resistenza ben saldo [Iran/Siria/Hizbollah].
È probabile che gli Americani abbiano optato per questa soluzione dopo aver perso le altre sfide nella regione: (1) il controllo dell’Iraq; (2) il rovesciamento del regime siriano attraverso le fazioni sostenute da Turchia, Arabia Saudita, Qatar, EAU e Israele; (3) lo sfruttamento dell’ISIS come barriera geografica strategica nel cuore dell’asse della resistenza. Quest’ultimo tentativo è fallito per via della natura stessa dell’ISIS e quindi per l’impossibilità di calibrare e controllare le sue azioni. Per essere più chiari, l’intenzione degli Americani è questa: sottrarre dei territori all’ISIS in Siria e in Iraq, e dividere entrambi i Paesi. Questa spartizione non dovrebbe essere ratificata a livello costituzionale e legale; sarebbe, da sola, sufficiente a garantire, sul piano militare, geografico e politico, il mantenimento di una situazione incontrollabile e di una guerra infinita.
Non ci sono segnali che lascino pensare all’intenzione, da parte degli USA, di cimentarsi in uno scontro militare con la Russia sulla Siria. Il Primo Ministro Russo Dmitri Medvedev ha messo in guardia contro il rischio di una ‘guerra totale’ nel caso in cui la Turchia e gli Stati del Golfo entrassero in Siria e si scontrassero con l’esercito governativo. Ma Ankara non è in grado di contrastare Mosca senza la copertura degli USA e della NATO. Washington, dal canto suo, si rifiuta di schierare decine di migliaia di uomini in Siria e in Iraq. Perché sa bene cosa intenda il Leader Supremo Iraniano Sayyid Ali Khamene’i quando sostiene di essere pronto a intervenire per impedire la divisione della Siria e dell’Iraq; ed è consapevole della presenza reale delle forze iraniane sul territorio siriano e della capacità di Tehran di moltiplicare il numero delle truppe sul territorio.
È questa la carta che la Brigata Qods delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane potrebbe giocare in caso di intervento diretto contro l’esercito siriano da parte delle forze NATO. Ieri, il Vice Capo di Stato Maggiore, Generale Mas’ud Jaza’iri, ha dichiarato: ‘Non permetteremo mai che la situazione in Siria si evolva secondo le aspettative degli stati canaglia che continuano a nutrire ambizioni sulla regione; e prenderemo ogni misura necessaria per evitarlo.’
L’opzione di cui si parla tuttora a Washington prevede la ‘liberazione’ di Mosul e al-Raqqa dal controllo dell’ISIS, ottenuta con lo schieramento di forze Islamiche e Arabe, a cui gli Stati Uniti fornirebbero copertura aerea. La Turchia è il Paese che avrebbe maggiori possibilità in tal senso. Erdogan non ha fatto mistero delle sue mire, quando ha ricordato che il suo Paese non ha alcuna influenza sull’Iraq perché non ha preso parte all’invasione del 2003. In considerazione del fatto che il governo iracheno di Haidar al-‘Abadi non ha reagito alla presenza di forze turche nel nord dell’Iraq (fatta eccezione per qualche protesta meramente formale), le ambizioni del Presidente turco su Mosul e sul territorio a ovest della città non erano mai state così fondate. Il Regime Saudita, poi, gli offrirà la ‘protezione degli Arabi’, anche se solo formalmente con le ‘Forze Speciali’ o con mercenari che porteranno il vessillo di Al Saud.
Gli Americani e i loro alleati non resteranno di certo con le mani in mano. Ma la scelta di prendere parte a operazioni più consistenti in Siria e in Iraq pone dei quesiti a cui oggi è molto difficile rispondere:
– Quale sarà il prezzo da pagare per liberare Mosul dall’ISIS, dopo che i bombardamenti statunitensi hanno distrutto Ramadi? E quale sarà il destino dei circa 700.000 civili iracheni che vivono nella capitale della Provincia di Ninawa (dove sorge Mosul)?
– Cosa accadrebbe se la missione degli Americani o delle potenze che stanno gestendo si rivelasse più complicata del previsto?
– L’esercito Siriano potrebbe sconfiggere gli Americani sulla Provincia di Raqqa attraverso l’asse di Hama (Silmiyyah/at-Tabaqa)?
– Washington potrebbe abbandonare al loro destino i Curdi Siriani introducendo forze turche nelle zone che i Curdi hanno liberato dall’ISIS ad Aleppo, Raqqa, e nelle province di Hasaka?
– Come si schiererà l’altro asse che opera nella regione, soprattutto le forze di resistenza che hanno combattuto contro l’occupazione statunitense dell’Iraq e che adesso vantano una presenza militare massiccia e organizzata in Iraq?
Questa forza, a maggioranza Sciita, è pronta a intervenire in qualsiasi momento, soprattutto dopo essere stato esclusa dalla battaglia per sottrarre dal controllo dell’ISIS intere zone dell’Iraq occidentale?
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