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28/02/2016

Lo scalpo del Jobs Act per fare pace con la Commissione Ue

La visita di Jean-Claude Juncker a Roma è stata sottolineata dalla stampa mainstream più per le battute pronunciate dal presidente della Commisione Europea e da Renzi che non per i contenuti. Comprensibile, visto che si veniva da molte settimane di “euroscetticismo” recitato dal contafrottole toscano e da risposte taglienti del lussemburghese.

C'era insomma il bisogno di dare mediaticamente l'idea di una ricomposizione, di una internità del governo alle logiche e alle politiche di austerità dell'Unione Europea, senza però smentire troppo smaccatamente i punti salienti della “critica” italiana verso Bruxelles. Come sintetizzano alcuni commentatori, infondo si trattava di mettere assieme le esigenze del consenso sociale dei governi “obbedienti” (in calo, come Spagna e Irlanda hanno dimostrato) e quelle del rispetto formale dei conti.

Il compito non era improbo, visto che – come rivendicato più volte dal premier mai eletto – “l'Italia rispetta le regole” (ossia le prescritte misure di austerità), ma pretende margini ampi di “flessibilità”, comunque molto minori di quelli concessi o praticati autonomamente da Francia e Germania (la prima sfora regolarmente il rapporto deficit/Pil e la seconda il limite del surplus commerciale).

Il problema era semmai proprio sui conti, non sulle esigenze della “comunicazione”. In ballo c'era infatti l'atteso giudizio della Commissione sulla legge di stabilità presentata a Natale dal governo italiano e su cui i cerberi delle “regole” hanno storto subito il naso: “troppa flessibilità”, ovvero un uso disinvolto e scorretto delle varie clausole, che nel complesso hanno fatto levitare il rapporto deficit/Pil ben oltre quanto previsto per il 2016.

Il compromesso raggiunto è relativamente semplice da realizzare. Un paio di decimali di punto di “correzione” da mettere in campo subito (poco più di 3 miliardi, probabilmente reperibili senza neppure varare una manovra aggiuntiva), in cambio di un obiettivo di deficit per il 2017 molto più alto di quanto fissato nella tabella di marcia europea: dall'1,1% fino all'1,6-1,7%. Un margine molto consistente (tra gli 8 e i 10 miliardi), ma indispensabile al governo per evitare che scattino già a giugno le “clausole di salvaguardia” (aumenti dell'Iva, sostanzialmente). Una prospettiva pericolosa soprattutto sul piano politico, perché Renzi dovrà in qualche modo ammortizzare la prevista batosta delle elezioni amministrative e arrivare al referendum di ottobre sulla riforma costituzionale senza l'handicap di aver dovuto alzare le tasse.

Un compromesso che aveva bisogno di un scalpo da esibire, per convincere la Commissione che questo governo “sta facendo sul serio i compiti a casa”. E non poteva che essere il Jobs Act, con in suoi “straordinari risultati” più volte sbugiardati da analisti di ogni estrazione accademica (per esempio qui).

Quel che interessa alla Commissione, dunque al capitale multinazionale, non è davvero il numero reale o presunto di occupati “creati” dalle nuove normative sul lavoro, quanto lo svuotamento totale degli istituti che garantivano qualche tutela ai lavoratori. Su questo piano, in effetti, il maledetto Jobs Act consegna alle imprese un ventaglio di strumenti in grado di travolgere qualsiasi resistenza (per lo meno fin quando il conflitto sociale resterà spezzettato a livello aziendale, senza capacità di collegare insieme vertenze diverse solo sotto l'aspetto “nominale”).

In altri termini, il governo Renzi otterrà uno sconto sulla manovra correttiva da effettuare grazie alla “riforma” che riporta le condizioni del lavoro all'inizio del Novecento.

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