La Vqr (Valutazione della
qualità della ricerca) è una procedura in atto già da qualche tempo
nell’università italiana e, a dispetto dell’acronimo, valuta solo
elementi quantitativi. Essa serve a distribuire i finanziamenti ai Dipartimenti in base all’attribuzione di un coefficiente a singoli «prodotti» (sic!)
della ricerca (libri, saggi ecc.). Il meccanismo è ovvio: più basso il
punteggio ottenuto (dato dalla somma delle valutazioni ottenute dai
singoli «prodotti») meno soldi vengono erogati al Dipartimento… Meno
soldi si ricevono, meno ricerca si farà e meno docenti si potranno
chiamare, siano essi ricercatori o professori. Al prossimo giro
(triennale) si avrà quindi un punteggio ancora più basso. Questa
procedura non è solo ridicola per gli indicatori che utilizza, ma si
presta a usi impropri (valutare le Università e non solo i Dipartimenti
ad esempio, ma anche spingere gli Atenei a intervenire valutando i
singoli docenti, nonostante il Ministero continui ad affermare che non
sono i docenti gli oggetti della valutazione), e penalizza, per una
serie di ragioni che qui sarebbe troppo lungo elencare, gli Atenei del
Sud.
L’attuale protesta attraverso il boicottaggio della Vqr per riavere gli scatti stipendiali,
che, dopo il blocco, il governo ha riconosciuto a tutti i comparti
della pubblica amministrazione tranne che all’università, ha dei limiti
che sono oggettivamente innegabili. Una qualunque delle diverse forme
con cui la protesta si è presentata è colma di lacune, soprattutto di
natura politica, sia nell’analisi sia nella proposta. In generale, per
non far torto a nessuno, il difetto principale è l’incapacità (o la non
volontà) di farle assumere un carattere meno corporativo e più ampio,
che si faccia carico di mettere al centro del dibattito l’organizzazione
attuale dell’università (e della scuola) basata su una progressiva e
apparentemente ineluttabile aziendalizzazione e privatizzazione. Detto
questo, è vero che l’adesione al boicottaggio è molto diversificata,
andando da chi ha di mira soltanto il risarcimento economico e chi
invece vuole modificare radicalmente le procedure di valutazione, fino a
chi vuole cancellarle.
In questo marasma riteniamo che l’azione contro la Vqr vada comunque sostenuta e difesa; che se occuparsi dei soldi che ci hanno portato via negli ultimi anni è corporativo, allora toccherà essere corporativi,
anche perché non si chiede un aumento di salario, ma solo il
riconoscimento giuridico del quadriennio 2011-2014 e degli scatti
stipendiali dovuti per legge, prima bloccati e ora tolti; che la
ricerca non si fa con corpi eterei o con lo spirito e, dunque, le
condizioni materiali che la rendono possibile richiedono si sia meno
schizzinosi sul rapporto tra denaro e scienza.
Ogni azione di lotta collettiva,
inoltre, va contestualizzata storicamente se non si vuol cadere nel
manicheismo, rinunciando, in nome di una perfezione ideale, cioè
immaginaria, all’unica lotta concreta che c’è. Che l’università (e tutto
il comparto dell’istruzione pubblica) stia attraversando una crisi che
concerne anche il corpo insegnante è evidente da anni. La sua
spoliticizzazione progressiva non è casuale, bensì è un obiettivo
perseguito con tenacia attraverso la diminuzione progressiva ma
inesorabile delle risorse che ha scatenato una guerra di tutti contro
tutti per accaparrarsele, per quanto insufficienti a fornire un’offerta
didattica di qualità. Un’aggressività solo minimamente lasciata sfogare
da contentini tipo Abilitazione Scientifica Nazionale, il cui fallimento
– proprio per mancanza di fondi – è inciso come un marchio nella pelle
di decine di abilitati in attesa di una chiamata. Neanche fosse quella che fece cadere Paolo di sella!
Gli effetti si vedono ancora
prima che nella composizione politica dell’apparato docente nella sua
difficoltà ad assumere un atteggiamento politico, per tacere
della sua aperta avversione a farlo, almeno in alcuni casi. Questo è il
risultato di aver posto alla base del consenso la «maggioranza
silenziosa» che, fedele al proprio nome, si guarda bene dal dire
qualcosa anche di fronte all’avanzare di ciò che la distruggerà.
Trent’anni di bombardamento ideologico
sul male rappresentato dalla politicizzazione del discorso pubblico
cominciano a dare risultati. La politica ormai è, per i più, un male «a
prescindere» e non solo per lo squallido spettacolo che ne offrono
quotidianamente i politici di professione. Come se la sua apparente
assenza non costituisse il lasciapassare per politiche neoliberiste e
classiste, anziché per un’inesistente quanto mitica neutralità dei
provvedimenti governativi o peggio di governance.
Continui e progressivi cedimenti
stanno producendo in questi giorni numerose defezioni tra i docenti
inizialmente a favore del boicottaggio; per tacere dello
squallido spettacolo offerto dai Rettori, sempre pronti a fare il doppio
gioco con l’unico fine reale di soffiare sul fuoco mostrandosi prima
solidali e poi inviando mail, in alcuni casi minatorie, affinché si
espletasse la procedura. I molti che si stanno chiamando fuori dalla
lotta proprio quando servirebbe maggiore determinazione sono il frutto
di una progressiva disabitudine alla lotta e testimoniano la conseguente
consacrazione della paura come passione eminentemente politica. E chi
ha paura è sempre un suddito – anche se non per questo un nemico, ma
poco ci manca – perché ha già in sé il proprio sovrano assoluto, senza
aspettare che qualcuno lo rappresenti in carne e ossa – cosa che prima o
poi, comunque, accade sempre. Questi voltafaccia sono la spia
della difficoltà di leggere il salario come un rapporto di forza e,
dunque, come un rapporto politico di potere. Con tutti i limiti
che possiede, infatti, la protesta in atto, ha il pregio di provare a
saldare i ridicoli meccanismi di valutazione con cui si pretende di
ricondurre il lavoro universitario all’interno dei criteri del marxiano
«lavoro astratto» con la questione del salario; sebbene, lo ripetiamo, a
un livello ancora insufficiente.
I manichei, invece, che non appoggiano o
non appoggiano più la lotta per la sua insufficienza e imperfezione, da
un lato si nascondono dietro una perfezione del tutto immaginaria di
cui non sono certo i depositari e, dall’altro, si crogiolano nel
piagnisteo insopportabile che, non essendo ideali le condizioni della
lotta, non ha senso lottare. Si capisce bene che tutto il «godimento»
sta in questa immaginaria impossibilità. Ma non c’è tempo per la
psicoanalisi! C’è bisogno invece di persone capaci di spingere a
fondo le lotte quanto più possibile partendo dalle condizioni date e
non da quelle immaginarie, di migliorarle se se ne è capaci, di ampliarle e sostenerle nonostante
le loro imperfezioni. La lotta perfetta è come Dio e come tale la
lasciamo a chi è incapace di protestare e agire (o non lo vuole) contro
la «miseria reale» ossia contro lo «spettacolo» orrendo di una «società
divisa all’infinito nelle razze più svariate, le quali si contrastano
con piccole antipatie, cattiva coscienze e brutale mediocrità e che a
causa della reciproca posizione ambigua e sospetta vengono trattate
tutte senza distinzione, se pur con differenti formalità, dai loro signori come esistenze consentite. E lo stesso fatto di essere dominate, governate, possedute, esse devono riconoscerlo e professarlo come una concessione dal cielo!»
(K. Marx). Oltre al lamento, infatti, non c’è nulla: non un’analisi
diversa (che non sfoci nell’inevitabilità dell’accondiscendenza), non
una proposta alternativa, non l’indicazione di un terreno di lotta più
proficuo, ma solo la narcisistica pretesa di essere gli unici a capire…
che nulla si può fare di fronte al Destino che «il cielo» ha elargito.
Viva dunque chi sta resistendo, fino all’ultimo, con un sussulto di coraggio.
Gli altri fanno davvero venir voglia di cedere alla tentazione di
pensare che questa università meriti di essere distrutta come stanno
cercando di fare destra e sinistra da almeno dieci anni a questa parte.
Non vogliamo però cadere in questo
tranello. Se ciò verso cui la Vqr e tutto il resto vogliono andare è una
nuova università d’élite, cioè di classe (e non certo dei migliori),
allora bisogna resistere (almeno resistere, anche se sarebbe
meglio contrattaccare) all’idea che non sia possibile fare una buona
università di massa. Certo, come abbiamo già detto,
servono soldi e strutture, volontà politica e organizzazione, capacità
di pianificazione sul lungo periodo e consenso sociale; ma serve anche
una classe docente che sappia farsi rispettare non solo
scientificamente, ma anche politicamente, anziché calare i pantaloni,
rassegnata, ma in fondo felice, per il godimento che la aspetta.
Infine, chi pensa sia un
privilegio fare questo mestiere, provi a parlare con i precari, con i
ricercatori e con le loro famiglie. Osservi le loro vite e con
esse un lavoro quotidiano, spesso di ottima qualità, portato avanti
nonostante i salari più bassi di tutta Europa, i finanziamenti
inesistenti, le strutture fatiscenti, i carichi di insegnamento sempre
maggiori senza nessuna controparte, l’incertezza costante del proprio
futuro, la sempre maggiore dipendenza dai «baroni» alla faccia della
supposta premialità del merito. Non si ripeterà mai abbastanza, infatti,
che dalla riforma Gelmini in poi l’università è stata consegnata sempre
di più in mano ai soli baroni: molto più di quanto non lo fosse già
prima, il che è tutto dire. Anche se la Vqr non riguarda i
precari dell’Università, ma solo i cosiddetti «incardinati», sono
proprio i precari che sconteranno gli effetti più deleteri della
procedura e primo fra tutti il fatto che le università con una
valutazione bassa si troveranno nell’impossibilità di assumere nuovi
docenti e alcune correranno pure il rischio di dover chiudere interi
corsi di laurea. Una penalizzazione che toccherà ovviamente anche i
futuri studenti.
La protesta contro la Vqr,
comunque finisca, non è certo la battaglia decisiva, ma è un tassello
importante di un’ipotesi di progetto contro-egemonico: sia per
far capire che dopo anni di tagli l’Università non è più disposta a
tollerarli, sia per provare a costruire un discorso e un movimento di
lotta che affronti alla radice i problemi che la attanagliano.
Forse non sarà la protesta contro la
Vqr, ma non sarà neppure una risata che seppellirà i distruttori
dell’università pubblica italiana.
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