Il dibattito sulla politica israeliana è condizionato da due fattori.
In primo luogo, la memoria della Shoà – l’evento che abbiamo celebrato
come ogni anno qualche giorno fa – pesa come un macigno su tutte le
prese di posizione critiche nei confronti del sionismo, che vengono
immediatamente – e spesso pretestuosamente – assimilate
all’antisemitismo. Quanto alle blande
reazioni dell’opinione pubblica occidentale nei confronti della dura
repressione israeliana contro il popolo palestinese, tanta tolleranza è
dovuta al fatto che, non solo da destra ma spesso anche da sinistra, si
guarda a Israele come a una democrazia impegnata a difendersi
dall’aggressione di stati, culture e movimenti politici antidemocratici
(atteggiamento che il terrorismo di matrice islamica ha ovviamente
rafforzato). Tutto ciò impedisce, fra le altre cose, di prendere atto
dei crescenti conflitti interni alla nazione israeliana, che rischiano
di spaccarla in due campi ideologici ferocemente contrapposti e di farla
somigliare alla “democratura” del turco Erdogan, più che alle
democrazie occidentali.
Un articolo del New York Times
(giornale difficilmente sospettabile di pregiudizio antisraeliano) si
occupa di questo tema richiamando l’attenzione sui tentativi
dell’estrema destra di “mettere all’indice” autori, opere letterarie,
cinematografiche e teatrali in odore di “collaborazionismo” col nemico
(identificato non solo con i palestinesi, ma anche con i critici
stranieri della politica israeliana). Fra le maggiori protagoniste di
questa campagna – che richiama la “caccia alle streghe” scatenata dal
senatore McCarthy nel secondo dopoguerra, se non addirittura il
Minculpop di mussoliniana memoria, è la ministra della cultura e dello
sport Miri Regev. Fra le sue “battaglie” in difesa della purezza
ideologica sionista, il New York Times ricorda un emendamento,
intitolato “Lealtà in Cultura”, a una legge di bilancio che mira a
tagliare i finanziamenti pubblici alle istituzioni che non abbiano
espresso “lealtà” allo stato. Al suo fianco, operano gruppi di destra
come Im Tirtzu, che ha definito “talpe del nemico” nomi storici della
letteratura israeliana come Amos Oz, Yehoshua e David Grossman, mentre
alcuni giornali di sinistra rivelano che nel ministero della Regev si
starebbe ragionando sui libri da cancellare dai programmi scolastici.
Dure le reazioni da parte di alcuni noti intellettuali: il poeta Meir
Wieseltier ha parlato esplicitamente di fascismo, mentre l’attore e
regista Oded Kloter ha evocato il regime sovietico e denunciato
l’avvicinarsi di un’era di bigottismo, oscurantismo e repressione. In
compenso, su testate autorevoli come il Jerusalem Post, sono
apparsi articoli in cui si sostiene che il ministro fa bene a tagliare i
fondi a chi demonizza la nazione e promuovere le idee di coloro che, al
contrario, insegnano ad amare incondizionatamente Israele.
Il punto è, argomenta l’autore dell’articolo del Times, che
negli ultimi decenni le immigrazioni da vari Paesi del Medio Oriente e
dell’Est Europa hanno cambiato la composizione etnico religiosa del
Paese, isolando progressivamente le élite “europeizzate” e sinistrorse
che dominavano tradizionalmente la cultura, e legittimando l’ascesa di
intellettuali e politici di destra che ora ambiscono a presentarsi come i
soli, legittimi eredi ed interpreti del verbo sionista. Questa svolta
ripropone un inquietante interrogativo: è possibile che un popolo che ha
subito orrende persecuzioni ad opera del nazifascismo possa a sua volta
dare vita a un analogo regime? Se guardiamo alla tradizione
dell’ebraismo “europeizzato” di cui sopra, la risposta dovrebbe essere
un no senza riserve, ma se guardiamo alla doppia pressione, da un lato,
della guerra infinta, dall’altro lato, di un integralismo non meno
fanatico di quello islamico, non possiamo escludere che un simile mostro
possa sorgere.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento