Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

01/02/2016

Maccartismo made in Israel

Il dibattito sulla politica israeliana è condizionato da due fattori. In primo luogo, la memoria della Shoà – l’evento che abbiamo celebrato come ogni anno qualche giorno fa – pesa come un macigno su tutte le prese di posizione critiche nei confronti del sionismo, che vengono immediatamente – e spesso pretestuosamente – assimilate all’antisemitismo. Quanto alle blande reazioni dell’opinione pubblica occidentale nei confronti della dura repressione israeliana contro il popolo palestinese, tanta tolleranza è dovuta al fatto che, non solo da destra ma spesso anche da sinistra, si guarda a Israele come a una democrazia impegnata a difendersi dall’aggressione di stati, culture e movimenti politici antidemocratici (atteggiamento che il terrorismo di matrice islamica ha ovviamente rafforzato). Tutto ciò impedisce, fra le altre cose, di prendere atto dei crescenti conflitti interni alla nazione israeliana, che rischiano di spaccarla in due campi ideologici ferocemente contrapposti e di farla somigliare alla “democratura” del turco Erdogan, più che alle democrazie occidentali.

Un articolo del New York Times (giornale difficilmente sospettabile di pregiudizio antisraeliano) si occupa di questo tema richiamando l’attenzione sui tentativi dell’estrema destra di “mettere all’indice” autori, opere letterarie, cinematografiche e teatrali in odore di “collaborazionismo” col nemico (identificato non solo con i palestinesi, ma anche con i critici stranieri della politica israeliana). Fra le maggiori protagoniste di questa campagna – che richiama la “caccia alle streghe” scatenata dal senatore McCarthy nel secondo dopoguerra, se non addirittura il Minculpop di mussoliniana memoria, è la ministra della cultura e dello sport Miri Regev. Fra le sue “battaglie” in difesa della purezza ideologica sionista, il New York Times ricorda un emendamento, intitolato “Lealtà in Cultura”, a una legge di bilancio che mira a tagliare i finanziamenti pubblici alle istituzioni che non abbiano espresso “lealtà” allo stato. Al suo fianco, operano gruppi di destra come Im Tirtzu, che ha definito “talpe del nemico” nomi storici della letteratura israeliana come Amos Oz, Yehoshua e David Grossman, mentre alcuni giornali di sinistra rivelano che nel ministero della Regev si starebbe ragionando sui libri da cancellare dai programmi scolastici.

Dure le reazioni da parte di alcuni noti intellettuali: il poeta Meir Wieseltier ha parlato esplicitamente di fascismo, mentre l’attore e regista Oded Kloter ha evocato il regime sovietico e denunciato l’avvicinarsi di un’era di bigottismo, oscurantismo e repressione. In compenso, su testate autorevoli come il Jerusalem Post, sono apparsi articoli in cui si sostiene che il ministro fa bene a tagliare i fondi a chi demonizza la nazione e promuovere le idee di coloro che, al contrario, insegnano ad amare incondizionatamente Israele.

Il punto è, argomenta l’autore dell’articolo del Times, che negli ultimi decenni le immigrazioni da vari Paesi del Medio Oriente e dell’Est Europa hanno cambiato la composizione etnico religiosa del Paese, isolando progressivamente le élite “europeizzate” e sinistrorse che dominavano tradizionalmente la cultura, e legittimando l’ascesa di intellettuali e politici di destra che ora ambiscono a presentarsi come i soli, legittimi eredi ed interpreti del verbo sionista. Questa svolta ripropone un inquietante interrogativo: è possibile che un popolo che ha subito orrende persecuzioni ad opera del nazifascismo possa a sua volta dare vita a un analogo regime? Se guardiamo alla tradizione dell’ebraismo “europeizzato” di cui sopra, la risposta dovrebbe essere un no senza riserve, ma se guardiamo alla doppia pressione, da un lato, della guerra infinta, dall’altro lato, di un integralismo non meno fanatico di quello islamico, non possiamo escludere che un simile mostro possa sorgere.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento