Fino a tre anni fa il potente predicatore – dal 1999 trasferitosi in Pennsylvania da dove dirige il suo maxi impero finanziario, economico e religioso attivo in diversi paesi del mondo, oltre che in Turchia – ha sostenuto in maniera determinante l’ascesa al potere di Erdogan, condividendo con quello che poi è diventato un leader autoritario e spregiudicato una visione ideologica basata sul liberismo e su una versione relativamente soft dell’Islam politico.
La sua confraternita, ribattezzata Hizmet – in turco ‘Il servizio’ – (una sorta di Opus Dei, Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere messe assieme ma naturalmente di matrice islamica) era all’inizio degli anni 2000 già così estesa e influente da permettere a Erdogan prima di conquistare la prestigiosa carica di sindaco di Istanbul, e poi di spiccare il volo verso la vittoria alle elezioni generali del 2002 con il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo. Se alla fine degli anni ’90 Gulen aveva lasciato la Turchia perché incalzato dagli apparati kemalisti che temevano la sua influenza, l’ascesa al potere di Erdogan ha in qualche anno epurato e indebolito l’esercito cacciando o processando migliaia di comandanti laicisti.
Ma con il crescere del potere e dell’ambizione di Erdogan la simbiosi con Hizmet e Gulen ha cominciato a scricchiolare, finché nel 2013 i rapporti tra i due si sono incrinati definitivamente. Quando quell’anno una inchiesta ha rivelato gravi episodi di corruzione a carico di quattro ministri e del figlio Bilal, Erdogan ha esplicitamente accusato il predicatore di aver fabbricato e diffuso prove false per disarcionarlo dal potere e l’ha dichiarato il ‘nemico numero uno’ della Turchia. E da quel momento le purghe erdoganiane hanno iniziato a prendere di mira soprattutto gli ambienti politici, militari, economici vicini a Gulen. A migliaia i suoi sostenitori sono stati cacciati dall’esercito, dalla magistratura, dalla polizia, dalle redazioni dei giornali e di altri media, e il governo ha anche varato una legge ad hoc per indebolire la rete di scuole religiose controllate proprio da Hizmet. Come ricorda efficacemente Claudio Gatti su Il Sole 24 Ore di oggi, il potere dello ‘stato parallelo’ era molto grande: “Quel potere è risultato evidente quando due giornalisti turchi che avevano scritto del movimento gülenista, Nedim Sener e Ahmet Şık, sono stati arrestati da un procuratore noto per aver lanciato accuse improbabili contro alti ufficiali delle Forze armate seguaci di Atatürk. Lo stesso è successo a Hanefi Avci, ex capo della polizia di una cittadina di provincia che aveva scritto un libro sull’infiltrazione gülenista nelle forze di polizia e del sistema giudiziario. Accusato di collaborazione con il terrorismo, l’ex poliziotto che per tutta la vita professionale aveva combattuto corruzione ed estremismo politico è stato arrestato e messo in carcere”.
Ma dopo il ‘fallito golpe’ del 15 luglio Erdogan sta ripulendo ulteriormente esercito e magistratura dagli elementi gulenisti, oltre che da altri oppositori, e probabilmente Hizmet perderà molta della sua residua influenza.
La disamina della figura di Fethullah Gulen e dei motivi dello scontro con Erdogan è al centro di un articolo davvero interessante di Alberto Negri, sempre de Il Sole 24 Ore, che riproduciamo qui di seguito.
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Ecco perché il golpe contro Erdogan è fallito: il ruolo dell’amico-nemico Gulen e la rottura dei rapporti con gli Usa
Alberto Negri – Il Sole 24 Ore del 17 luglio 2016
Il colpo di stato naufragato in Turchia è diventato una crisi internazionale. Chi è Fethullah Gulen, l’uomo che sta provocando la maggiore contrapposizione tra Usa e Turchia e forse nella Nato degli ultimi 50 anni? Perché Erdogan, pur di riavere indietro questo anziano Imam in esilio negli Usa, chiude la base Nato di Incirlik e tiene sotto pressione Washington? Con il golpe fallito emerge il nodo principale della questione: una rottura clamorosa tra gli interessi della Turchia e quelli occidentali. Gulen, accusato da Ankara di essere l’ispiratore del fallito golpe, è il simbolo di questa rottura, non la causa profonda ma la sua vicenda ci aiuta a capire la parabola della Turchia negli ultimi decenni e anche i problemi che hanno gli occidentali nel capire pezzi di storia mediorientale assai poco conosciuta, compreso il Califfato di Al Baghdadi e i legami strumentali tra Erdogan e i jihadisti con cui il presidente turco trattò direttamente il rilascio dei diplomatici turchi sequestrati a Mosul nel 2014.
Fu uno dei tanti episodi che non erano piaciuti agli americani, per altro sempre ambigui e spericolati sul che fare con i radicali islamici, utilizzati in funzione anti-russa dai tempi dell’Afghanistan negli anni ‘80 e poi in chiave anti-iraniana come vorrebbero fare adesso per dare una mano al fronte sunnita. Magnate e mistico sufi, intellettuale e scrittore, uomo d’affari e predicatore, amico di Giovanni Paolo II: chi è davvero Fethullah Gulen, da vent’anni anni in esilio in Pennsylvania, che sembra diventato il peggiore nemico del premier turco Erdogan? Golpista qui in Turchia fa rima con gulenista.
Eppure negli anni passati è stata proprio questa santa alleanza tra questi due islamisti – Gulen, detto “Hoca”, il Maestro, ed Erdogan – che aveva fatto fuori l’élite militare dalla scena politica e costruito l’ormai appannato modello di potere musulmano e democratico dell’Akp. Anzi, questo potrebbe spingerci a fare qualche riflessione sul perché questo golpe è fallito: i gulenisti delle forze armate in fondo avevano aiutato l’Akp a far fuori la vecchia guardia militare e può essere una delle ragioni che ha indotto i kemalisti dell’esercito a tenersi lontani dal tentativo di colpo di stato. Le vicende politiche di questi anni in Turchia hanno insinuato crepe e divisioni in quelle forze armate una volta compatte e tetragone che detenevano anche un forte potere economico: l’ascesa dell’Akp e dei gulenisti ha ridimensionato un sistema dominante per decenni. Non è un caso che il partito kemalista di Chp abbia condannato il golpe, seguito poi da tutti gli altri. Quella tra Gulen ed Erdogan è una battaglia dai contorni sotterranei e a volte misteriosi che ha segnato le vicende della Turchia entrando soltanto di sfuggita nei libri di storia.
La più influente confraternita musulmana, una sorta di Opus Dei all’islamica, che con Gulen ha raggiunto milioni di seguaci e un fatturato di miliardi di dollari, costruendo scuole, università, controllando giornali e gruppi economici, infiltrandosi nella magistratura e nella polizia, ha origini nello sperduto villaggio anatolico di Nurs, vicino al lago Van. È qui che nasce nel 1876 Said Nursi, sceicco sufi che intendeva riconciliare la fede con la scienza e il mondo moderno. Fu uno dei più grandi riformatori dell’islam ma per decenni fu vietato pronunciarne persino il nome. Kemal Ataturk, che pure ne ammirava la figura carismatica, dopo la disgregazione dell’Impero ottomano nel 1925 abolisce tutte le confraternite: tra queste la tarika di Said Nursi, denominata Nur, Luce. Said Nursi si ritira a vita privata ma continua a fare proseliti, scrive 6mila pagine di commenti al Corano, corrisponde con intellettuali, Papi e patriarchi ortodossi, invocando l’unità delle religioni contro il materialismo. Perseguitato e più volte arrestato, muore nel 1960 nell’oasi di Urfa, da latitante. La sua tomba resta un segreto ben custodito dai seguaci che temevano venisse profanata. Fethullah Gulen, seguace di Said Nursi, è figlio di questa storia dai tratti esoterici. Ma anche della rivalità con l’altra confraternita dei Naksibendi che nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui è un sufi che trasforma il sonnolento Ordine dei Naksibendi nella vera scuola socio-politica: sono seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro Necmettin Erbakan, lo stesso Erdogan.
Ed ecco un altro tassello che ci collega all’Isis e quello che è accaduto in questi anni recenti. Tra i seguaci della setta dei Naksibendi seguita da Erdogan c’era anche Izzat Ibrahim al Douri, ex vice di Saddam Hussein. Questo è forse l’aspetto meno conosciuto e più interessante dell’ex gerarca che apparteneva all’Ordine dei Naqshbandi, una confraternita musulmana molto estesa, dall’Asia centrale alla Turchia alla Mesopotamia. Credenziali che in qualche modo lo devono avere reso affidabile anche gli occhi del Califfato: è stato Al Douri a forgiare l’alleanza con l’Isis tra baathisti ed ex Saddamiani che ha portato all’avanzata nel Siraq dello Stato Islamico. Gulen fa la sua ascesa negli anni ’80, poco dopo la morte di Kotku, diventando amico di Ozal con il quale trova un forte terreno d’intesa liberando lo spirito imprenditoriale delle famose “Tigri dell’Anatolia”, quella classe media musulmana tradizionalista, esclusa dai kemalisti, e attirata dalla predicazione islamica di stampo quasi calvinista di Fethullah che mette l’accento sul successo economico e individuale. Hoca Effendi Gulen – che nel ’99 si autoesilia in Usa per sfuggire a un processo per eversione da cui è stato assolto nel 2008 – si appoggia alla rete delle “dershane”, comunità di studio, preghiera e mutuo soccorso.
La sua confraternita, denominata Cemaat, conta ora su decine di università e centinaia di scuole preparatorie e milioni di seguaci, dai quattro ai cinque solo in Turchia, senza contare l’associazione imprenditoriale Tusko, l’impero mediatico Zaman, la finanza islamica (Bank Asya). Secondo alcune stime governa asset per 25 miliardi di dollari ma non è sempre chiaro chi siano i veri finanziatori. Nella lotta tra Erdogan e Gulen molti osservatori vedono una battaglia storica tra la confraternita sufi dei Naksibendi e quella dei Nurcu fondata da Said da cui ha tratto ispirazione Gulen. Già anni fa si osservava che era un’alleanza innaturale, quasi tattica, per far fuori i kemalisti e i militari.
Ma la competizione a sfondo religioso non spiega tutto. L’obiettivo di Gulen era una riforma radicale della repubblica ereditata da Ataturk mentre Erdogan non intendeva rovesciare completamente il sistema kemalista e punta a una democrazia presidenziale dai tratti autoritari con valori islamici. I due sono in rotta di collisione anche in politica estera. Gulen si è sempre detto contrario ad appoggiare la guerriglia islamica anti-Assad in Siria, alla rottura con Tel Aviv – ora ricomposta – all’apertura ai Fratelli Musulmani. Perché Gulen ed Erdogan sono arrivati allo scontro? Così rispondeva qualche tempo fa Fatih Ceran, portavoce dei gulenisti: “Noi abbiamo sostenuto Erdogan e l’Akp quando si trattava di sottrarre il potere ai militari per consegnarlo alla società civile. Ma ci rifiutiamo di accettare soluzioni anti-democratiche. Hizmet ai suoi occhi è troppo liberale e indipendente”. Sarà stato anche così ma nella sede di Istanbul dei gulenisti, nella parte asiatica sul Bosforo, mi accolsero mostrandomi un video dove l’Imam stringeva le mani a Bush jr e senior, a Clinton e a tutto l’establishment americano degli ultimi trent’anni.
Ecco cosa c’è dietro a un golpe, tra cause dirette e indirette: la rottura degli interessi strategici della Turchia, che puntava a diventare un Paese leader del mondo musulmano annettendosi economicamente la Siria e l’Iraq e quando nel 2011 il piano è naufragato tra guerre e rivolte Erdogan ci ha provato con altri mezzi, la guerriglia jihadista, all’inizio comunque approvata dagli americani in funzione anti-Assad e anti-Iran. Poi sono venute le intese con Teheran sul nucleare e l’intervento della Russia a cambiare i dati strategici. Non solo: sia gli Usa che la Russia hanno appoggiato i curdi siriani in chiave anti-Isis, vero incubo strategico per la Turchia. E ora si metteranno forse d’accordo per spartirsi le zone di influenza nella regione. Erdogan si sente “tradito” dagli Usa, i golpisti da Erdogan per la sua politica anti-Nato e a loro volta hanno “tradito” il presidente che ha fallito i suoi obiettivi espansionistici. Così si è aperto un nuovo vaso di Pandora in Medio Oriente.
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