Con l’assassinio del parroco della
chiesa in Normandia, ormai siamo ad una strage al giorno e, questa
volta, ad essere coinvolta è anche la Germania che, sin qui l’aveva
scansata. Allora cerchiamo di capire che sta succedendo per decidere che fare.
Io distinguerei tre tipi di attentati in base alla tipologia dell’attentatore:
a. l’attentato del militante Jihadista, che lo fa coscientemente,
immolandosi per una forma di lotta, l’azione politicamente razionale
che sinora avevamo sperimentato;
b. l’eccidio compiuto da una persona psichicamente disturbata ed aizzata da uomini dell’Isis;
c. la strage compiuta dal singolo folle che lo fa per “sindrome
imitativa” e che non ha rapporti con l’Isis se non immaginari.
In questo quadro, il pericolo maggiore è
rappresentato dal terzo tipo: lo jihadisa vero lo si può raggiungere
con un buon lavoro di intelligence, il folle contattato dall’Isis è già
più difficile da raggiungere, ma seguendo le piste di qualche jihadista
conosciuto si può pensare di arrivarci, ma lo psicopatico isolato non è
prevedibile in nessun modo. E sappiamo che se uno si butta giù dalla
Tour Eiffel e la stampa ne parla, è automatico che nei giorni seguenti,
altri faranno la stessa cosa. E’ inevitabile. E dobbiamo tener conto di
alcuni fattori molto pericolosi:
a. le azioni di questo genere godono di una platea europea, quindi di un bacino vastissimo di potenziali attentatori;
b. c’è un gruppo particolare ma molto ampio dal quale può sorgere il
potenziale “psicopatico solitario”, quello delle persone di fede
islamica che si sentono in un partibus infidelium (si badi, resto
convinto che la grande maggioranza degli islamici che vivono in Europa
non ci sono affatto ostili, ma considerato che si tratta di oltre 20
milioni di persone, anche una piccola percentuale di una persona su
10.000 fa 2.000 potenziali attentatori, il che è molto preoccupante);
c. le situazioni di disagio psichico sono più diffuse della media fra
persone in condizioni di particolare stress, povertà, esclusione come
sono i rifugiati, i profughi, gli immigrati;
d. tutto questo espone al rischio anche quei paesi (come Italia e Germania) che sinora avevano evitato attentati di questo tipo perché la centrale operativa jihadista riteneva non conveniente fare attentati in questi paesi; ma i folli non fanno di questi calcoli e quindi prendiamo in considerazione un possibile attentato del genere anche in Italia;
e. in Europa esistono le normative più diverse sul trattamento del disagio psichiatrico e della tossicodipendenza, per cui il fenomeno emerge dalle più diverse situazioni (ad esempio, in Germania il servizio sanitario pubblico non cura le tossicodipendenze; in Italia non esistono più i manicomi giudiziari, in altri paesi minori, il disturbo psichiatrico non è ritenuto una vera e propria malattia e non è assistito dal servizio pubblico, un po’ in tutta Europa veniamo da continui tagli alla spesa sanitari con particolare riferimento alla psichiatria e questi sono i risultati);
f. il trattamento delle notizie riguardanti la Jihad sia in Medio Oriente che in Europa, non è stato particolarmente accorto, per cui questo ha contribuito a creare un immaginario eroico dell’Isis che moltiplica il contagio emotivo fra le persone più deboli e predisposte.
Tutto ciò considerato – e limitandoci alle due tipologie “non razionali” degli attentatori, quelli solitari e quelli “istigati” – penso potrebbe essere utile prendere in considerazione una serie di misure tarate proprio sul contrasto psicologico.
In primo luogo, i servizi di
intelligence che ancora non lo abbiano fatto, apprestino prima possibile
una unità speciale per il contrasto psicologico alla Jihad e cerchino
di acquisire la più vasta partecipazione di psichiatri, psicologi e,
soprattutto, psicanalisti.
In secondo luogo, almeno su questo
piano, che non prevede l’uso di infiltrati (vero ostacolo alla
collaborazione fra servizi), ci si precipiti a dar vita ad un vero
coordinamento europeo in materia.
In collaborazione con il ministero della
Sanità di ciascun paese i servizi di intelligence varino una inchiesta
sui dati provenienti dai servizi di igiene mentale pubblici e privati e
con le associazioni di categoria, sullo stato della situazione.
Beninteso, non si tratta di chiedere nomi, il che sarebbe contro ogni
etica professionale ed inaccettabile, ma esperienze, dati quantitativi,
casi particolari (pur sempre anonimi) eccetera. Ci interessa studiare e
capire il fenomeno.
In collaborazione con il personale delle
Università (coinvolgendo, oltre che scontatamente gli islamologi, anche
sociologi, storici, politologi, psicologi, antropologi ecc.) costituire
centri di analisi sui fenomeni di interesse che producano incontri e
papers utili alla comprensione del fenomeno. Insieme a tali centri
sarebbe opportuno riesaminare con molta attenzione il linguaggio usato
da politici e mass media in riferimento all’Isis, per evitare quanto
possa favorire quell’immaginario eroico di cui abbiamo detto.
Ovviamente, questa opera di consulenza,
discussione ed analisi dovrebbe essere prestata dal personale accademico
a titolo puramente gratuito, come manifestazione di patriottismo
repubblicano di fronte ad una emergenza nazionale che minaccia tutti.
Utile sarebbe anche riconsiderare la
politica di ciascun paese in materia di trattamento del disagio
psichiatrico e delle tossicodipendenze cercando, per quanto possibile,
di unificare le soluzioni soprattutto in materia di prevenzione.
Ed, allora, mettiamoci in testa qualche semplice verità:
Ed, allora, mettiamoci in testa qualche semplice verità:
1. qui non si tratta solo del problema della Jihad e dello scontro con l’Isis, ma anche di una emergenza di cui nessuno parla: l’esplodere del disagio psichiatrico in un tratto molto particolare e numeroso della nostra società. Affondare i barconi, fare spedizioni militari in Libia, sognare impossibili epurazioni delle nostre società dagli immigrati ecc. non serve a niente, qui il problema in gran parte è un altro;
2. da questo marasma non usciremo costruendo muri o affidandoci alla sola opera dell’intelligence (che pure deve esserci e più efficiente di quanto non sia attualmente e rettificando gli errori sin qui replicati) ma con una mobilitazione straordinaria di tutta la società per cui da ciascuno venga il contributo necessario ad una opera di integrazione degli immigrati, di conoscenza del fenomeno, di cura delle zone a rischio eccetera.
Piantiamola con la retorica del
“siamo in guerra” che complica solo le cose, ma mobilitiamoci per
sconfiggere un pericolo che minaccia tutti.
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