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22/07/2016

L’ospite imprevisto: il “polo imperialista fondamentalista”

Quando è crollata l’Unione Sovietica, e quindi tutto il “polo socialista reale”, per qualche anno è sembrato che il mondo fosse sostanzialmente uno ed omogeneo (la “globalizzazione”). La crisi ha però macinato con indifferente ruvidità questa immagine. Oggi il mondo appare – a chi vuol vedere – decisamente multipolare, e l’ex “guardiano globale” fa sempre più fatica a imporre una sua qualsiasi soluzione. Anche perché, come si è visto dal 2001 in poi, con la “guerra infinita” di Bush junior e successori, palesemente non ha più soluzioni da offrire.

Tutti vedono il polo statunitense, quello russo e quello cinese. Molti cominciano a capire che c’è un polo europeo che cerca una sua struttura interna e un suo ruolo autonomo, pur essendo tutto dentro la Nato.

Ma c’è un polo che finora nessuno è riuscito ad indagare, sgombrando il campo dalle parole-tabù – il “terrorismo” – che impediscono di fare scienza e riducono la complessità del reale a favoletta morale (i “buoni” occidentali contro i “cattivi” che sono altro da noi).

E’ tempo di inquadrare questa presenza, un soggetto rilevante nella “guerra asimmetrica” che da oltre 15 anni percorre il mondo. E naturalmente c’è molto da lavorare...

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L’imperialismo è una tigre di carta. Limiti e contraddizioni delle élite globali.

Il contadino, il declassato, l’affamato è, degli sfruttati, quello che scopre per primo che soltanto la violenza paga. Per lui non c’è compromesso, non c’è possibilità di accomodamento. La colonizzazione o la decolonizzazione, è semplicemente un rapporto di forze.
(F. Fanon, I dannati della terra)

L’operazione militare condotta dai soldati del “polo imperialista fondamentalista” a Dacca sembra meritare molto di più che un semplice commento. Tale episodio consente, infatti, di gettare uno sguardo non secondario dentro le contraddizioni palesemente insanabili che la fase imperialista globale ha aperto. Tralasciamo, perché già affrontato in precedenza1, la matrice imperialista che sta alla base di questi avvenimenti per concentrare l’attenzione sulla “linea di condotta” politico/militare di quello che è possibile definire come “polo imperialista fondamentalista”; sull’impasse in cui si ritrovano i vecchi imperialismi; infine sulle ricadute che tutto ciò comporta per il movimento comunista e antagonista.

Cominciamo, intanto, con il porre in evidenza le non secondarie differenze tra la “operazione Dacca” e le “operazioni Parigi”. Mentre nelle operazioni parigine a essere colpiti sono stati essenzialmente i simboli e i rituali propri dello stile di vita delle popolazioni occidentali socialmente incluse, a Dacca sono state colpite le funzioni che gli occidentali rivestivano in quel contesto. Nel primo caso abbiamo un’operazione bellica finalizzata a riportare la dimensione della guerra dentro i territori metropolitani colpendo, questa l’essenza strategica dell’operazione, in maniera indistinta la popolazione. Una linea che, come sembrano dimostrare i “fatti di Nizza” consumatisi mentre si stavano estendendo queste note, tende essere non solo reiterata ma continuamente rafforzata 2. In questo modo, con il restituire alle popolazioni indigene la normale condizione esistenziale delle popolazioni quotidianamente immerse negli scenari di guerra, si è imposto un clima di insicurezza generalizzata di cui, obiettivamente, non è possibile venire a capo. Nel momento in cui le forze avversarie colpiscono a trecentosessanta gradi, nessun governo, per quanto efficace ed efficiente, è in grado di tutelare la sicurezza della propria popolazione 3. Ciò, del resto, non è una novità. Nel corso delle guerre convenzionali, quando l’aviazione nemica arrivava sopra i cieli delle città, il governo di turno poteva solo approntare una serie di rifugi anti aerei senza per questo poter garantire che tutti sarebbero stati in grado di raggiungerli in tempo. In una guerra in cui i bombardamenti non possono neppure essere annunciati da alcun radar, la vita degli individui non può che dipendere dal caso, cioè dalla buona o cattiva sorte di ciascuno. A Parigi, Bruxelles, Nizza ecc. questo obiettivo, il rendere per i cittadini occidentali del tutto casuale la vita e la morte (come del resto accade ogni giorno dentro gli innumerevoli scenari di guerra), è stato ampiamente raggiunto dalle truppe jihadiste. In questo modo la guerra è entrata a far parte anche del quotidiano della popolazione occidentale. In seconda battuta queste operazioni hanno assolto a una corposa funzione di propaganda poiché hanno mostrato alle popolazioni sotto assedio che è possibile ripagare il nemico con la stessa moneta: quindi, colpendo i mondi dell’inclusione sociale, si è inteso dare rappresentazione e sfogo a quel ressentiment proprio degli esclusi delle metropoli europee globalizzate. Alle popolazioni sotto scacco e ai globalizzati in basso di “pelle scura” quelle operazioni avevano il compito di parlare e di offrire una via di fuga. E così hanno fatto. La sostanziale “omertà”, degna della Corleone dei tempi d’oro, della quale sembrano potersi avvalere i nuclei dei soldati islamisti dentro i territori metropolitani è qualcosa che può ignorare solo chi, eludendo le contraddizioni oggettive prodotte dal proprio sistema imperialista, non riesce a far altro che ricondurre il tutto a un astorico e immateriale scontro di civiltà.

Nel caso delle operazioni di Dacca lo scenario politico/militare cambia completamente. Gli obiettivi non sono indistinti ma assolutamente selezionati. Senza troppi rigiri di parole sono state colpite le diverse sfaccettature del comando capitalistico occidentale. Le condizioni di vita, prossime al servaggio e alla semischiavitù, della stragrande maggioranza della popolazione bengalese sono quanto mai note. Ciò fa sì che quel paese sia diventato particolarmente appetibile per l’imprenditoria internazionale poiché le condizioni lavorative consentono di ricavare profitti inimmaginabili. Non staremo quindi a ripetere cose ampiamente note. Ci troviamo all’interno di un contesto propriamente coloniale dove la borghesia locale collabora in piena sinergia con il comando capitalistico internazionale al più bieco sfruttamento delle masse subalterne. L’azione dei soldati jhiadisti ha colpito esattamente lì. Ha colpito il sistema imperialista e coloniale offrendo una sponda di lotta e di riscatto non secondaria alle popolazioni oppresse. Tutto questo nel nome di un neomillenarismo religioso che proclama, qui e ora, l’epopea dell’avvento. Con ciò, i vessilli dell’Islam politico e radicale, sventolano rigogliosi e minacciosi tra i cuori delle plebi. Una fede di lotta, di guerra e di riscatto risveglia i loro corpi intorpiditi e macerati dallo sfruttamento capitalistico. Ecco che, di colpo, il marxiano gemito degli oppressi riemerge in tutta la sua concretezza storica, diventando arma non irrisoria bensì strategica di una giovane forza imperialista che questo gemito ha piegato ai propri interessi. Certo, l’imperialismo che alimenta e foraggia lo jhiadismo è ben poco interessato all’emancipazione delle popolazioni dominate dall’imperialismo occidentale ma questo, a conti fatti, ha ben poca importanza. Centrale è il fatto che l’imperialismo a dominanza islamista può far suo il gemito degli oppressi perché agisce all’interno di una contraddizione reale. Agli occhi delle popolazioni oppresse, vessate e schiavizzate, quell’azione, condotta in maniera volutamente violenta e barbarica, non può che essere percepita come vendetta e riscatto. Tanto più, c’è da scommetterci, ampia ed esecrata sarà la condanna da parte del mondo occidentale e del governo bengalese, tanto più l’operazione avrà riscaldato i cuori degli oppressi, non solo in Bangladesh. I corpi martoriati degli imperialisti occidentali, per le popolazioni oppresse non potranno che rappresentare allo stesso tempo una vendetta e il simbolo di un riscatto. Tanto più il mondo occidentale si mostrerà disgustato, tanto più un’altra parte del mondo esulterà. È così difficile comprenderlo? Si dirà: “Non tutti gli occidentali messi a morte erano vampiri giunti in Bangladesh per succhiare il sangue della popolazione indigena. Tra questi vi erano anche persone estranee al ciclo produttivo. Persone che erano lì per svolgere attività in “favore” delle popolazioni locali”. Al proposito occorre tornare a un passaggio de I dannati della terra ed esattamente la dove, Fanon, smaschera l’essenza del mondo coloniale:
“Il mondo colonizzato è un mondo scisso in due. Lo spartiacque, il confine è indicato dalle caserme e dai commissariati di polizia. In colonia l’interlocutore valido e istituzionale del colonizzato, il portavoce del colono e del regime di oppressione, è il gendarme o il soldato. Nelle società di tipo capitalista, l’insegnamento, religioso o laico, la formazione di riflessi morali trasmissibili di padre in figlio, l’onestà esemplare di operai decorati dopo cinquant’anni di fedele servizio, l’amore incoraggiato dell’armonia e della saggezza, forme estetiche del rispetto dell’ordine costituito, creano intorno allo sfruttamento un’atmosfera di sottomissione e di inibizione che allevia notevolmente il compito delle forze dell’ordine. Nei paesi capitalisti, tra lo sfruttato e il potere si frappone una caterva di professori di morale, di consiglieri di “disorientatori”. Nelle regioni coloniali, invece, il gendarme e il soldato, con la loro presenza immediata, i loro interventi diretti e frequenti, mantengono il contatto col colonizzato e gli consigliano, a colpi di sfollagente o di napalm, di non muoversi. Come si vede, l’intermediario del potere usa un linguaggio di pura violenza. L’intermediario non allieva l’oppressione, non cela il predominio. Li espone, li manifesta con la buona coscienza delle forze dell’ordine. L’intermediario porta la violenza nelle case e nei cervelli del colonizzato”. 4
Come ci ricorda Fanon nel passo appena citato, nel mondo coloniale non esistono zone franche, figure non compromesse poiché tutte appartengono, e sono direttamente funzionali, al mondo degli oppressori. Esattamente da qui occorre partire. Su questo fatto, tanto ovvio quanto banale, fa leva l’imperialismo a dominanza islamista. Certo, come sappiamo benissimo, né Maometto né il Corano potranno emancipare gli oppressi, semmai anzi, dare una nuova giustificazione all’oppressione ma, al momento, occorre riconoscere che solo questa forma alienata sta conquistando il cuore e le menti dei nuovi schiavi. Per questa alienazione sono pronti a combattere e morire quote non secondarie di subalterni. A delinearsi è una guerra quanto mai complessa. Una guerra all’interno della quale masse non secondarie di subalterni sembrano sentirsi direttamente coinvolte il che pone, oggettivamente, non pochi problemi alle tradizionali consorterie imperialiste.

Di fronte a tutto ciò è facile osservare tanto le contraddizioni quanto le debolezze che caratterizzano le vecchie potenze imperialiste. Queste, a partire dal crollo dell’URSS, hanno rimodellato la forma guerra in chiave decisamente post industriale, ovvero hanno considerato del tutto superata la dimensione di massa della guerra. Ciò ha comportato una serie di ricadute non semplicemente di natura militare. Del resto se la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi è tanto ovvio quanto banale che una ridefinizione della forma guerra comporti una radicale trasformazione di tutti gli assetti politici, economici e sociali e, con questi, una messa in forma statuale adeguata al modo in cui è concettualizzata la guerra. In virtù di ciò la popolazione ha iniziato a essere considerata come elemento privo di interesse strategico per la volontà di potenza degli imperialismi occidentali e, conseguentemente a ciò, relegata nell’ambito dell’esclusione sociale e politica. In poche parole, nei nostri mondi, la guerra è diventata qualcosa di estraneo e distante dalla popolazione, per essere totalmente appaltata agli specialisti. Tutta la politica militare occidentale, come dimostrano ampiamente le recenti esercitazioni NATO, verte esattamente su ciò 5. Un immenso dispiegamento di tecnologia coadiuvata da una élite umana dalle sembianze sempre più vicine a Robocop. Questo, andando al sodo, il modo in cui l’imperialismo occidentale si è attrezzato per la guerra. Palesemente tutto ciò si sta dimostrando completamente impotente di fronte a una forza imperialista come quella a matrice arabo/fondamentalista che proprio sulle masse e sul loro coinvolgimento attivo ha edificato il suo progetto politico/militare. Considerata esaurita l’epopea delle società di massa, l’imperialismo occidentale, in maniera del tutto autistica, ha pensato il mondo a propria immagine e somiglianza. I conti cominciano a non tornare e proprio sul terreno bellico, ovvero il punto di tensione massimo del politico, gli imperialismi occidentali stanno mostrando di essere dentro un impasse che li rende sempre più simile a un autentica tigre di carta. D’altra parte, l’imperialismo non può, perché è un fatto strutturale e non di buona o cattiva volontà, uscire dalle proprie contraddizioni. Per certi versi il suo destino, o almeno quello dei vecchi imperialismi, sembra essere segnato. Nuove forze imperialiste stanno emergendo. La crisi ha già dato il la a una fase di guerra guerreggiata. Dobbiamo pertanto chiederci se e come, in questa guerra, le forze comuniste siano in grado di starvi dentro al fine di spezzare la macchina imperialista. Su una cosa, almeno, pare sensato ragionare: come catturare il consenso delle sterminate masse subalterne in “pelle scura” globalizzate in basso. Senza troppi rigiri di parole dobbiamo chiederci se siamo in grado di competere, sul piano dell’egemonia politica, con quel gemito degli oppressi che sembra mietere successi non proprio irrilevanti sia all’interno dei nostri mondi, sia su scala internazionale. Sulla scia di ciò si pone, in maniera non artificiosa e accademica, la questione di quale forma, nel contesto della fase globale imperialista, debba darsi l’internazionalismo proletario. In un mondo che si è fatto uno, come Dacca è lì a ricordarci, è ancora pensabile una “linea di condotta” che, di fatto, continua a pensare l’esistenza di un qui e di un la rigidamente separati? Possiamo, a conti fatti, continuare a pensare ed agire come se Dacca, ovvero le masse bengalesi, fossero qualcosa che non ci riguarda? Dobbiamo continuare ad agire e pensare come se mappa e territorio coincidessero oppure dobbiamo iniziare a sforzarci di comprendere mappa e territorio dentro l’era globale? Realisticamente è pensabile neutralizzare le sirene islamiste, che obiettivamente agiscono con una logica internazionale, rimanendo prigionieri delle nostre vecchie e care mappe concettuali? Di fatto, ed è ciò che il gemito degli oppressi testimonia, l’era globale ha unificato la condizione subalterna e proletaria. Ma se questo prodotto del sistema imperialista stesso non è colto nella sua “concretezza”, non potranno che essere le forze capitaliste, sicuramente sotto nuova veste, ad avvantaggiarsene. Mai come oggi socialismo o barbarie è la sola posta in gioco. Restare fuori dai giochi, oggi, equivale condannarsi alla barbarie, di questo occorre averne consapevolezza.

Note:
1 G. Bausano, E. Quadrelli, Della guerra Crisi e conflitti dell’imperialismo in www.sinistrainrete.info
2 Tutto ciò senza dimenticarne l’aspetto economicamente devastante. Difficile, infatti, non immaginare le ricadute negative che questa operazione avrà in una zona che vive non poco di e sul turismo. Un turismo, anche questo non sembra irrilevante, di caratura medio – alta all’interno di un territorio politico particolarmente xenofobo e razzista.
3 L’illusione, più volte coltivata in questi ultimi mesi, di consegnare all’intelligence la messa in sicurezza dei territori e della popolazione appare ben poco realistica. La forza che l’esercito islamista è in grado di mettere in campo sfugge a qualunque “modello concettuale” delle Agenzie di intelligence. Questo, almeno dentro le metropoli globalizzate, recluta tra i nuovi dannati della terra i quali, a quanto pare, per diventare soldati operativi dell’esercito islamista non devono passare attraverso particolari forme di indottrinamento politico – religioso. Non devono, cioè, distinguersi all’interno di una qualche “moschea radicale” o diventare fedeli adepti dell’iman fondamentalista di turno. Più prosaicamente debbono mostrare di voler combattere radicalmente uno stato di cose che li consegna dentro l’invisibilità politica e sociale. Una condizione che accomuna milioni di individui i quali, per combattere, non hanno bisogno di essere dei fini teologi. Ciò non può che, in linea di massima, spiazzare il lavoro di intelligence il quale, per attivarsi, necessita di una serie, anche minima, di coordinate. Ma non solo. I soldati islamisti agiscono senza far ricorso a una qualche strumentazione particolarmente sofisticata il che non può che lasciar spiazzati i Servizi i quali, di fronte a una simile strategia, risultano pressoché impotenti. Un’impotenza non tanto dell’intelligence bensì dei vecchi blocchi imperialisti che si mostrano del tutto impreparati nel confronto con il giovane e aggressivo polo imperialista islamista.
4 F. Fanon, I dannati della terra, (pagg. 5 – 6), Edizioni di Comunità, Torino 2000
5 Paradigmatica la recente esercitazione NATO, denominata “Anakonda 16”, svoltasi in Polonia.

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