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21/07/2016

Erdogan proclama lo stato d’emergenza

Novanta giorni di emergenza, se basteranno. E’ la linea meno dura possibile che salta fuori dalla riunione fiume del Consiglio di sicurezza nazionale presieduta dal presidente turco Erdoğan al cospetto dei suoi ministri fidatissimi. Perciò seguiteranno radiazioni e arresti, purghe e licenziamenti, botte e minacce di morte che è la quotidianità turca dal mattino del 16 luglio. Mentre per diversi militari imprigionati Amnesty International lancia l’allarme sull’uso della tortura e si registra il suicidio d’un capo della polizia compiacente verso i ribelli. E’ il contro golpe galoppante non destinato a fermarsi, perché Allah non poteva fare un regalo più grande all’Atatürk islamico, com’egli stesso aveva confessato nelle ore del ritorno a Istanbul. Da quattro giorni si agisce sull’onda dell’indignazione dell’establishment di governo, della solidarietà espressa da tutto il panorama partitico – da destra a sinistra –, dell’odio che nutriti gruppi di sostenitori dell’Akp sbandierano accanto agli stendardi nazionali: striscioni che osannano la morte dei “cani gülenisti” e chiedono il ripristino della pena di morte. Su questa si pronuncerà prossimamente il Parlamento, come sulla ratifica di normative estreme contro cui ben pochi esponenti della comunità internazionale si pronunciano, perché eccezionale è la fase attraversata dalla Turchia.
Solo l’amica-nemica Merkel s’è detta “preoccupata” per il genere di detenzione riservata ai militari arrestati. E’ però una voce isolata nella compagine occidentale, che vede Obama far telefonate mellite al collega turco, felicitandosi per lo scampato pericolo alla democrazia. Facendo intendere, dunque, che le reazioni di Ankara non siano esagerate, né illiberali. Gli States devono tener botta alle accuse di ospitare il demone che progetta il rovesciamento violento del legittimo governo turco ed è chiaro che la partita diplomatica rimbalza senza tener conto di sofismi sulla democrazia. Certo, quello che la politica anatolica dell’ultimo secolo ha sempre digerito a fatica sia sotto l’indirizzo kemalista, sia con l’islam tradizionalista, e sempre più nazionalista, dell’ultimo quindicennio è l’accettazione della diversità di pensiero dal proprio punto di vista. Egualmente all’imposizione del laicismo in uno Stato che nasceva dalle polveri d’un impero che era stato multietnico e multireligioso, il nuovo corso erdoğaniano cerca di oscurare le altrui tracce, etniche e secolariste che siano. E se non può estirparle o cancellarle del tutto, mira a sottometterle al suo modello. Nei giorni del furore ci riesce, perché dall’europea Istanbul giungono voci di paura più che di timore: anche gli sfrontati ribelli del Gezi park devono tenere un basso profilo.
I ragazzi coi simboli del giovanilismo globalizzato, musicale e non, si celano ed evitano d’incontrarsi, le fanciulle nascondono le gambe e cancellano i trucchi. Prevale l’omologazione islamica e la storia che corre veloce richiama alla mente come solo sei anni addietro le universitarie di Fatih si dolevano di non potersi mostrare velate nelle aule. Ora girare coi capelli al vento sembra un oltraggio, perché centinaia di testimoni affermano che gli ultrà presidenziali additano le ragazze prive di hijab e le insultano. La vivacissima Istiklal Caddesi di notte rischia di apparire uno dei tetri decumani di Kabul. Eppure la repressione, scattata rapida e violenta nelle ore successive al tentato putsch, con arresti di militari allargati poco dopo a giudici, amministratori pubblici, docenti di scuole e università su, su fino ai rettori, che fa pensare a proscrizioni preconfezionate, deve considerare come queste schedature erano già in possesso dagli apparati del partito di governo e degli agenti del Mıt. L’alleanza sempre più stretta che avvicinava personalmente Gülen a Erdoğan dalla fine degli anni Novanta, aveva fatto conoscere al leader del partito della Giustizia e dello Sviluppo la tattica con cui il movimento Hizmet piazzava i suoi elementi nei gangli vitali della società turca ancora permeata di laicismo kemalista. L’Imam aveva imparato bene la lezione del potere e individuava i punti caldi in cui inserire i seguaci più fidati e finanche i simpatizzanti.
Strutture eccellenti, come l’esercito ben controllato da quei generali che sino alla fine degli anni Novanta ancora inanellavano golpe, nel 1997 l’ultimo, che condusse alle dimissioni il premier Erbakan mettendo fuori legge l’ennesima aggregazione politica islamista. Quindi l’organismo che per sua natura vigila sulla politica: la magistratura e genericamente, poiché ritorna sempre utile a chi fa affari, la burocrazia statale. E ancora: la società del futuro rappresentata dai giovani, dunque, tutte le scuole d’ogni ordine e grado. In ciascuno di questi organismi il “Servizio” gülenista ha attuato le sue ‘infiltrazioni’ e i governi amici dell’Akp lasciavano fare, perché si trattava di alleati che toglievano terreno sotto i piedi ai kemalisti in divisa e abiti civili. Dal 2012, anno in cui oltre ai problemi di politica estera, iniziarono per l’esecutivo erdoğaniano questioni via via spinose (contestazioni di Gezi park, intrighi e affarismo privato di ministri, riaccesa conflittualità coi curdi, questione profughi, chiusura all’ingresso Ue) inizia a palesarsi il braccio di ferro su chi deve guidare le menti musulmane del Paese. Dietro alcuni episodi, come i processi per corruzione o inadeguate misure di prevenzione (il disastro minerario di Soma), ci sono giudici prossimi a Fethullah e comunque le idiosincrasie di Erdoğan, scarsamente infondate, crescono. Da qui partono le punizioni mirate del Sultano verso i finanziamenti pubblici alle scuole Hizmet, un colpo durissimo sul duplice terreno ideologico ed economico, oltreché sul programma di penetrazione nella società.

Gülen incassa e medita vendetta, anche se il recente tentativo di golpe, preparato col suo assenso o a sua insaputa, da militari che a lui s’ispirano risulta perdente perché non convince quelle stellette tuttora kemaliste e i tanti ufficiali ormai di sponda erdoğaniana, che osservano e si schierano col meno sprovveduto. Il caso del reo confesso (sotto pressione speciale o tortura?) colonnello Türkkan, consigliere primo di una delle menti golpiste, il generale Hulusi Akar, che ha ammesso di aver tramato contro la nazione (e rischia, dunque, la forca se verrà reintrodotta) è esplicativo d’un sistema che affiliava adepti preparandone la via per una carriera di rango. Levent Türkkan ha raccontato ai giudici gli sviluppi del percorso militare, partendo dalla propria vita privata. Segnata da un’infanzia grama in una famiglia di umilissime origini, com’era la maggioranza del popolo turco fino a un trentennio fa. Nel caso dei suoi genitori si trattava di agricoltori poverissimi e fedeli all’Islam che vennero avvicinati da adepti gülenisti pronti a sostenere il figliolo negli studi. Il “Servizio” preparò il giovane Levent all’esame nell’Accademia militare di Ișiklar. Da lì l’ingresso nell’esercito e un incremento d’incarichi che lo portò a compiere servizi di vigilanza anche a politici e ministri. L’uomo ormai fedele a Hizmet le avrebbe compiute a suo modo. O meglio nella maniera confacente a ordini superiori: piazzando microspie nelle stanze delle massime autorità dell’esercito. Questo confessa oggi Türkkan. Un percorso credibile, bisogna capire quanto indotto, sia prima, sia ora dalla lotta per il potere dei due padroni dell’Islam turco. Una lotta che continua.

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