Tra gli alleati del regime siriano circola “un’opinione comune che il fallito golpe in Turchia” potrebbe aggravare i rapporti già difficili tra Ankara e Washington con conseguente “vantaggio” per Damasco e il suo alleato principale – la Russia – a tutto svantaggio delle forze curde-siriane e degli Stati Uniti, impegnati nella lotta ai jihadisti dello Stato Islamico. E’ quanto scriveva nei giorni scorsi il quotidiano libanese “Assafir”.
La ‘previsione’ di Assafir sembra essere stata ampiamente azzeccata a vedere le scintille tra Ankara – che accusa gli Usa di aver sostenuto il colpo di stato fallito e comunque di ospitare Fethullah Gulen, additato come l’ispiratore dell’ammutinamento armato – e Washington – che invece minaccia di ritorsioni la Turchia all’interno del fronte Nato agitando la questione delle libertà fondamentali e dei diritti umani.
Per il giornale di Beirut, ben addentro alle vicende siriane, “fino al fallito colpo militare, l’aria che si respirava a Mosca confermava aspettative di importanti cambiamenti in Turchia rispetto al conflitto siriano e rispetto anche il ruolo di Ankara in seno alla Nato”. Assafir ricordava come il recente riavvicinamento tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e la Russia sia “avvenuto al culmine delle tensioni con Washington”.
Infatti, dopo le critiche del presidente Usa Barack Obama che in un’intervista ad aprile ad “Atlantic” aveva definito il suo omologo turco “fallito e autoritario”, il “Sultano” di Ankara ha reagito sferrando un duro attacco all’amministrazione Usa: “Se l’America non pone limiti al Pkk e al PYD e YPG l’intera regione assisterà ad un bagno di sangue”, ha detto Erdogan arrivando a chiedere a Washington di scegliere tra lui ed i curdi e minacciando di chiudere la base militare turca Incirlik usata dalla Coalizione internazionale per i raid anti-Isis in Siria. La stessa base che dopo il fallito golpe è stata perquisita dalla polizia che ha arrestato vari graduati e militari turchi, accusati di aver permesso il rifornimento di alcuni caccia guidati da piloti ribelli. Come se non bastasse alla base è stata sospesa per più di 24 ore l’erogazione dell’energia elettrica ed è stata isolata, impedendo i collegamenti con l’esterno.
La massiccia ripresa dei bombardamenti russi nel Nord siriano a sostegno del governo di Damasco deciso a riconquistare Aleppo considerata “decisiva” per le sorti del conflitto, avrebbe determinato la svolta di Erdogan. “Trovatosi di fronte ad un alleato (Usa) titubante al massimo ed un nemico (Russia) che non esita ad attaccarlo se dovesse ripetersi l’abbattimento di un altro aereo russo” Erdogan, che doveva fare i conti con l’ascesa delle forze curde siriane e con un’ondata senza precedenti di attentati in patria compiuti dai jihadisti dell’Isis e dai guerriglieri curdi, “ha deciso di abbassare la cresta e chiedere scusa” a Mosca per l’abbattimento, da parte di un suo caccia, dell’aereo russo avvenuto lo scorso novembre.
Una svolta quella di Erdogan seguita subito da una dichiarazione di apertura del nuovo primo ministro turco Binali Yildirim, il quale aveva parlato di un’inevitabile “ripresa di normali relazioni” con la Siria, tanto da provocare la dura reazione del regime saudita che aveva avvertito Ankara delle gravi conseguenze che avrebbe generato quello che il regno wahabita aveva definito ‘il tradimento dei ribelli siriani’, cioè dei piani fino a quel momento condivisi tra le petromonarchie e la Turchia neo-ottomana.
Il quotidiano libanese fa notare inoltre come la nuova grande offensiva dei lealisti siriani che ad Aleppo sono riusciti a stringere il cerchio intorno alle zone controllate dai ribelli islamisti legati ad Ankara, sia avvenuta “senza alcuna reazione di Ankara” che fino a poche settimane fa considerava invece la perdita del capoluogo “una linea rossa”.
Insomma, scriveva pochi giorni fa Assafir, “la Russia è molto più vicina ad Erdogan degli Usa”, che continuano a scommettere sui nemici giurati della Turchia, le forze curde-siriane elevati ad alleati nella lotta contro l’Isis.
Ecco quale potrebbe essere, secondo Assafir, un potenziale scenario dopo un’eventuale rottura tra Washington ed Ankara: un’intesa tra Erdogan e l’asse Mosca-Damasco. In cambio Mosca convincerebbe Assad e dei suoi alleati libanesi e iraniani a non consentire la creazione di una zona autonoma curda nel Nord della Siria. Una eventuale chiusura o ridimensionamento della presenza Usa nella base aerea di Incirlik, utilizzata dalla Nato, concederebbe a Mosca un netto vantaggio nella gara in corso con Washington per la liberazione della capitale del califfato Raqqa. “Qualsiasi cosa accadrà, è difficile che in Medio Oriente la Turchia sunnita, governata dai Fratelli musulmani, passi dalla parte dell’Iran, di Bashar Assad e, per conseguenza, dei russi. Ma una Turchia anti-americana, contraria ad assecondare la prova di forza della Nato in Polonia e repubbliche baltiche, indebolisce l’Alleanza di fronte alla questione ucraina ancora aperta” scriveva ieri Ugo Tramballi su Il Sole 24 Ore.
Che poi, sulla base del classico ‘a chi giova’, ipotizza che dietro le quinte di quello che definisce “volutamente fallito” golpe del 15 luglio ci debbano essere i russi. Perché ora la Nato, dopo aver deciso di inasprire la militarizzazione dei suoi confini orientali e settentrionali rafforzando la minaccia contro Mosca, si ritrova con uno dei suoi paesi cardine governato da un regime furiosamente anti-americano, tanto da far circondare e chiudere per qualche ora la più importante base Nato della regione e da accusare esplicitamente Washington di aver ispirato il tentativo di regime change.
Ma oltre al ‘cui prodest’ nessun altro elemento sostiene questa tesi.
A volte la spiegazione più convincente è anche la più semplice: il golpe è fallito perché l’inimicizia e lo scontro tra Ankara e Washington era così palese che il regime turco monitorava le forze armate ed è stato in grado di intercettare le mosse dei golpisti, mettendo al riparo Erdogan e gli uomini chiave del governo ma lasciando che i militari ribelli andassero allo sbaraglio, in modo da poter godere poi di un controgolpe che ha già portato a decine di migliaia tra arresti ed epurazioni in tutti gli apparati dello stato.
Probabilmente non sapremo mai veramente perché il golpe del 15 luglio è stato prevenuto e poi è fallito: perché una parte dei golpisti si è tirata indietro (magari facevano il doppio gioco)? Perché i golpisti hanno sottovalutato la capacità di controllo e di reazione del regime? Perché non hanno tenuto conto del sostegno popolare di cui Erdogan gode? Perché gli eventuali sponsor internazionali dell’operazione non hanno concesso tutto il sostegno promesso? Domande alle quali sarà difficile, anche col tempo, dare una risposta.
Proseguendo nel suo ragionamento, è lo stesso Tramballi comunque a ricordarci che gli Stati Uniti non sono affatto infallibili, anzi. E che quindi la spiegazione degli eventi del 15 luglio possa essere un’altra: “È mezzo secolo che la Cia commette errori imbarazzanti. Che non sapesse nulla di un golpe che stava maturando nei gangli di potere dell’alleato strategicamente più importante della regione, è un indizio di colpa o di mediocrità. La tardiva reazione a un golpe in un Paese tecnicamente democratico, dimostra quanto poco Washington e l’Europa stimino Erdogan. (…) Gli Stati Uniti potrebbero avere istigato (più che organizzato) il golpe (…) per impedire il riavvicinamento strategico fra Ankara e Mosca”.
Chiudendo il suo articolo, poi, Tramballi cita un’ipotesi spuria, ma non per questo meno plausibile e inquietante: “La (…) ultima variante è che il colpo di stato sia un semplice episodio accidentale nel percorso tormentato della vicenda euro-mediorientale. Come l’attentato di Gavrilo Princip all’erede al trono austriaco, a Sarajevo: l’evento imprevedibile che fa precipitare gli eventi. È estremamente probabile che anche dopo il golpe turco nulla resterà come prima”.
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