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22/07/2016

Erdogan è più forte, ma per quanto?

Erdogan più forte? Certamente sì, ma per quanto? E soprattutto, chi sono i “mandanti economici” del fallito golpe? In sostanza, a chi giovava per davvero un cambio di regime intentato con pratiche militari? E’ vero che alcune fazioni residuali dell’esercito come i trombati ed autoesiliati del suo partito ne avessero tutto l’interesse ma, visto quello che è successo in Egitto, è sicuramente più plausibile pensare ad un ruolo ‘nascosto’ degli USA. Non formalmente, ma l’attesa nella presa di posizione la notte del golpe poi fallito la dice lunga su quanto un ‘governo fantoccio’ che ristabilisse gli interessi nazionali di Washington potesse essere bene accolto dall’altra parte dell’oceano, da un punto di vista geopolitico ed economico. Peraltro negli ambienti ‘Neocon’ (e qui la partita va letta anche in chiave elettorale per le presidenziali Usa) già da tempo discutevano se fosse il momento buono per tirar giù un altro suddito irriconoscente.

Pare infatti che le economie della Turchia non siano un granché e di questo passo il rischio per gli investitori stranieri di perdere montagne di dollari a causa dell’eventuale scoppio della “bolla turca” si stia facendo sempre più concreto. Da qui l’entrata in recessione del paese che già vive una contrazione del PIL con un’inflazione affatto stabilizzata e una crescente difficoltà nel recuperare crediti sommariamente elargiti. Anche il “giochetto” della svalutazione funziona sempre meno e in Turchia non pare che abbiano, ahinoi per i lavoratori, la scala mobile.

Chiaramente non si sta parlando di debito statale (lo è solo in parte) ma dell’accrescimento del debito privato della Turchia (“Non performing loans”). Così si spiegano anche le “masse reazionarie” accalappiate dal sogno piccolo borghese e nazional popolare di Erdogan. Che piaccia o meno la Turchia il suo ciclo di espansione lo ha vissuto e un blocco sociale – reazionario ma di massa – ha trovato tutte le convenienze nello stare nel gioco garantendo ad Erdogan il consenso elettorale. Eppure da qualche anno, regalie, “prestiti facili”, mutui ad alto rischio e prestiti internazionali per investimenti nell’industria pare proprio che tardino a rientrare ed abbiano sforato in volume la metà del PIL turco.

Da un prospetto della Blackrock sulle rendite dei fondi turchi, si capisce che questi non producono le marginalità economiche auspicate (anche ROI).

Dello stesso avviso – anche se ‘en passant’ – il Fatto Quotidiano nel luglio del 2015, e nel frattempo la situazione è anche peggiorata.

Vediamo dunque come si comporteranno gli investitori e se si accontenteranno di aver “rimesso in pista” Erdogan o se lo giudicheranno definitivamente inaffidabile per le sue mire egemoniche fuori misura, un po’ come per gli altri ‘ex-amici’ dell’ISIS prima finanziati e poi scaricati e bombardati. Non di poco conto, per gli interessi USA, sono le commesse militari turche che, nel mercato globale, si sono orientate però negli ultimi tempi anche verso il ‘player’ cinese.

Guardando invece agli italici banchieri e al nostro capitalismo straccione, occorre tenere conto che Unicredit – che come sappiamo fa affari con Finmeccanica tramite Warrant e altri fondi – detiene il 57% della quarta banca turca per importanza.

Quindi quando ci viene detto che hanno delle sofferenze (NPL-Swap e altro marciume finanziario) sappiamo che hanno in corpo anche un bel po’ di titoli tossici turchi. Non ultimo e di fondamentale importanza geopolitica sono gli asset energetici, nei quali la Turchia gioca un ruolo fondamentale per i destini dell’area mediorientale. Infatti senza farsi troppi problemi con statunitensi ed europei, Erdogan ha sottoscritto contratti per la realizzazione di oleodotti e centrali nucleari insieme al vicino russo, con cui nelle ultime settimane ha cercato e ottenuto un riavvicinamento dopo la crisi scatenata dall’abbattimento del caccia di Mosca in Siria: 1 - 2 - 3

Ora se sembra relativamente risolta la partita del nucleare iraniano con gli accordi sottoscritti di recente tra Washington e Teheran, con il conseguente scontento delle petromonarchie del Golfo e di Israele, negli ambienti guerrafondai staunitensi si discute di come la Turchia possa giocare un nuovo ruolo nell’area, anche dotandosi di armi nucleari. Non quelle NATO che si trovano già nella base di Incirlik, ma con uno specifico seppur difficoltoso e improbabile programma nucleare militare.

La risoluzione della crisi turca, passerà, per forza di cose, dalla futura amministrazione statunitense (ammesso che prevalga la Clinton) che è l’unica a poterne decidere le sorti. Se Erdogan resterà al potere sarà comunque ‘solo’ in chiave geopolitica (NATO) e di contrasto nei confronti di Russia e Cina. D’altronde economicamente Ankara ha già scontentato e non poco diverse multinazionali USA. Nel frattempo come già stiamo vedendo con la repressione interna, saranno tempi ancor più duri per i lavoratori, il popolo curdo e tutte le opposizioni interne.

Mala tempora currunt sed peiora parantur...

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