di Federica Iezzi – Il Manifesto
«Ha ridotto in
macerie case, palazzi e chiese, ha lesionato ospedali, caserme,
università e si è scatenato con violenza contro migliaia di persone
inermi. Ha distrutto vite, ha annientato speranze» è così che Amal, solo
15 anni, vede la guerra con cui convive da più di cinque anni. Abita,
con quello che è rimasto della sua famiglia, nella provincia di
al-Hasakah, città nell’angolo nord-orientale della Siria.
Abita in un piano sotterraneo della sua vecchia casa, non tanto per
il pericolo dei bombardamenti a cui ormai tutti sono abituati, ma perché
la vecchia casa è stata totalmente rasa al suolo. E adesso quello che
era il pavimento di quella casa è diventato il soffitto della nuova. Nel
governatorato di al-Hasakah, in particolare nel Jazira Canton, tutto è
iniziato con un’offensiva lanciata nel febbraio di due anni fa, dai
combattenti dello Stato Islamico (ISIS), che hanno conquistato almeno
200 villaggi. E a Tell Brak, uno di questi villaggi tra
al-Hasakah e Qamishli, cominciano i combattimenti tra l’Isis e la
milizia kurda dell’Unità di Protezione Popolare (YPG). Nonostante
l’isolamento all’interno del corridoio meridionale del capoluogo di
provincia, i jihadisti hanno dettato legge.
«Prima guardavamo solo in televisione le barbarie dell’Isis.
Morti, torture, violenze erano il nostro incubo ogni sera. Poi sono
arrivati nelle nostre strade, nei nostri panifici, nelle nostre moschee.
E d’un tratto niente più elettricità, assistenza medica, acqua e
rifornimenti alimentari come riso, zucchero, pasta e benzina», ci spiega
con una precisione disarmante Amal. Grazie alla rete di organizzazioni
umanitarie kurde, aiuti e servizi sono stati forniti con enormi sforzi.
Al taglio arbitrario dell’elettricità e alla carenza cronica di acqua
potabile, il governo kurdo ha risposto con distribuzioni capillari di
cibo, materiale sanitario e acqua.
Parliamo con lei durante l’Eid al-Fitr, festa che segue i sacrifici
del mese di digiuno, mentre la maggior parte delle botteghe del suq
centrale, ha aperto i battenti con luci e bibite colorate. La gente
passeggia nel suq e sembra quasi inspiegabilmente non intimorita.
«Dobbiamo continuare a fare quelle cose che ci aiutano a rendere la vita
il più normale possibile».
Ma dov’è la normalità in Siria? Si sono perse tutte le cose
che si danno per scontato ogni giorno, dall’aprire trascuratamente un
rubinetto e veder uscire acqua, all’andare in un negozio a comprare
latte. «E sì, mi mancano le cose più banali. Una doccia calda, una
bottiglia di Coca-Cola, andare in bici a scuola».
I primi a fuggire da al-Hasakah, sono stati i cristiani che hanno
abitato la zona per decenni. Quasi 4.000 famiglie hanno lasciato case e
quotidianità. Deserto in pochi giorni il quartiere sud-orientale di
al-Nachwa. 120.000 persone hanno trovato rifugio in città e villaggi
circostanti, secondo i dati riportati dall’Ufficio delle Nazioni Unite
per il coordinamento degli affari umanitari. «Ho dormito in un campo
all’aperto per il caldo insopportabile. Di giorno invece eravamo
ospitati in chiese, monasteri e scuole», ricorda Sarah.
«Pregavo, ma non sapevo cosa cercavo con le mie preghiere. Una parte
di me era arrabbiata, un’altra parte si vergognava per le scadenti
condizioni a cui costringevo i miei figli». Oggi si continua a
vivere in un labirinto di processi amministrativi, si vive sotto
un’autorità, si ha paura di attraversare un territorio con un’autorità
diversa. E dove le due autorità si sovrappongono bisogna stare lontano
dai guai.
«Al-Hasakah è divisa tra la milizia kurda e le forze fedeli al presidente al-Assad.
Vivo in un quartiere controllato dalle forze di regime e evito il posto
di blocco kurdo che mi costringerebbe a fare il servizio militare
obbligatorio», ci dice spaventato Abood, appena 19 anni. Fa il tassista e
usa strade secondarie e sconosciute alle mappe, per spostarsi da
al-Hasakah a Qamishli. «Ho due patenti di guida: la prima per il governo
siriano, nel caso in cui la polizia di Stato mi ferma, e la seconda è
per i curdi, nel caso in cui vengo controllato dall’Asayish, la polizia
curda».
Al racconto di Abood si unisce Yana, i cui genitori hanno un piccolo
negozio in una delle sfortunate aree in cui sia il regime sia le
amministrazioni kurde hanno influenza. «Abbiamo pagato le tasse
governative mensili e, a sorpresa, una tassa settimanale alle autorità
kurde, per la pulizia delle strade».
Solo nell’agosto del 2015 dopo combattimenti prolungati, le forze
kurde hanno ufficialmente dichiarato la liberazione della città di
al-Hasakah dagli insorti dell’Isis. La campagna è stata
condotta su tre livelli. Con il primo abbiamo circondato i villaggi
occupati dal Daesh. La seconda fase è stata caratterizzata dal taglio
delle rotte di approvvigionamento, negando ai combattenti la libertà di
movimento. Il terzo livello ha previsto la progressiva riconquista dei
quartieri dalla periferia al centro», ci spiega Felat comandante
dell’YPG.
«Quando la al-Hasakah-al-Shaddadah road è stata chiusa dall’esercito
kurdo, ci siamo sentiti in trappola nel mezzo di scenari già vissuti. La
paura dell’assedio ci ha perseguitati e oppressi, mentre crescevano la
carenza di cibo, acqua e medicine. Eravamo disposti perfino a fuggire a
piedi attraverso i ripidi percorsi di montagna», ci racconta Tejaw, 25
anni e quattro figli. «Anche l’aereoporto di Qamishli era inaccessibile.
Chi poteva volare? Solo chi aveva conoscenti che lavoravano per il
regime siriano, in particolare che lavoravano nella Air Force
Intelligence Directorate. In questo caso si potevano ottenere voli in
aerei cargo per 160 dollari».
Anche se sempre meno civili hanno voglia di discutere dell’attuale
situazione in Siria, Tejaw ci fa entrare nella tenda in cui vive nel
campo di al-Hawl, a est di al-Hasakah, e inizia «I sostenitori del
regime si sentono liberi di parlare solo nelle aree controllate dal
regime e gli oppositori parlano nei campi profughi», questa la sua
eloquente semplificazione.
«Di cosa si moriva quando il califfato ha rubato le nostre
case? Di fame, povertà, omicidio, stupro, arresto, macellazione. L’Isis
non regala misericordia, se sei vecchio o bambino, uomo o donna.
Ogni goccia di sangue versata dal nostro popolo, ogni parete distrutta
che portava storie di generazioni, ogni vecchio quartiere spazzato via
dalle cartine rappresentano una storia persa, che non apparirà mai su
nessun libro», continua.
Al-Hasakah è sempre stato uno degli obiettivi principali dello Stato islamico. Considerando
gli stretti legami tra tribù arabe al confine tra Iraq e Siria,
al-Hasakah rappresenta tutt’oggi il più facile mezzo per un’ulteriore
espansione trans-frontiera dei possedimenti del califfato nero.
Nei quartieri di al-Hasakah la graduale riapertura dei mercati, delle
attività commerciali e dei locali, il ripristino del lavoro negli
istituti statali e nel settore della sicurezza, si affaccia su una città
che deve ancora fare i conti con edifici cancellati, case, punti di
ritrovo e strade irriconoscibili.
Il peso umanitario conta oltre mezzo milione di sfollati interni da governatorati vicini, quali Deir Ezzor, al-Raqqa e Aleppo.
Il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, ha permesso ad almeno
400 donne di ritornare alla vita lavorativa e spesso i materiali
prodotti sono stati distribuiti ai residenti in stato di bisogno,
dall’abbigliamento alle coperte.
«L’Isis ha sempre imposto restrizioni ampie alle libertà personali.
Tutte le donne, comprese le bambine, avevano l’obbligo di indossare il
niqab, il velo integrale, pena la lapidazione pubblica. Niente veli,
guanti, borse, scarpe o accessori colorati. La città era una gigantesca
prigione. Internet in casa era vietato e la maggior parte delle reti
pubbliche era interrotta. I telefoni cellulari erano vietati e nessuno
era autorizzato a fumare sigarette nei luoghi pubblici», ricorda Tejaw.
«Dovevamo pagare ai funzionari del califfato una somma a titolo di
imposta, ed era anche previsto un dono volontario extra di 2.000 lire
siriane (10 dollari circa). Le persone non potevano permettersi
di comprare nulla. Molti negozi hanno chiuso e il prezzo del carburante e
del gas è aumentato di cinque volte. Alcuni miei amici hanno
collaborato con i militanti per ricevere maggiori razioni di cibo e
carburante. 15 kg di farina e 10 kg di riso erano le quantità che
riceveva una famiglia vicina all’Isis».
Telecamere sulle strade principali e pattuglie della Hisbah, la
polizia locale, erano il temuto occhio dell’Isis sui civili delle città
conquistate. Propaganda e indottrinamento erano ovunque. Dai programmi
scolastici al reclutamento militare. Nelle scuole è stato vietato
l’insegnamento della storia e del diritto. Le classi erano separate,
studenti da un lato, studentesse dall’altro. Militanti dell’Isis
pattugliavano le scuole primarie e secondarie, interrogando gli studenti
sulla legge islamica.
Al-Hasakah aveva dalla rete nazionale di 20 ore di elettricità al
giorno, che sono scese prima a sei-otto, poi a meno di due. Ogni
quartiere della città aveva l’acqua una volta alla settimana. Non
c’erano generi alimentari, l’ospedale non aveva medici o infermieri, e
non c’erano nemmeno le medicine di base. È questo quello che continua a
raccontarci Tejaw.
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