Una grande foto di un militare crucciato e, accanto, il titolo a caratteri cubitali: “Quest’uomo ha diretto il golpe”. Nella sua prima pagina di oggi, il quotidiano turco Yeni Safak, sostenitore del presidente Erdogan, punta direttamente il dito contro un generale degli Stati Uniti, John F. Campbell, e contro il governo di Washington per il tentativo di colpo di stato del 15 luglio scorso, accusando esplicitamente la Cia di averlo finanziato attraverso una banca con sede in Nigeria.
Il braccio di ferro tra Ankara e Washington continua, dopo che già nei giorni scorsi diversi esponenti del governo islamo-nazionalista turco avevano non solo esplicitamente accusato gli Stati Uniti di proteggere e ospitare l’ispiratore del colpo di stato, l’imam/magnate Fethullah Gulen, residente ormai dal 1999 in Pennsylvania, ma anche di aver sobillato e sostenuto i militari protagonisti dell’azzardato putsch.
Proprio oggi il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha diffidato i rappresentanti dell’Ue dal «fare dichiarazioni minacciose sul fatto che la Turchia non potrà entrare nell’Unione», e nel contempo ha chiesto di nuovo formalmente l’estradizione dagli Usa di Gulen. “Altrimenti le relazioni tra Ankara e Washington – avverte Cavusoglu – potrebbero deteriorarsi”.
Turchia isolata al G20
Che qualcosa si sia rotto definitivamente nelle già difficili relazioni tra la Turchia e il fronte dei paesi occidentali – e non certo per la brutale violazione dei diritti umani e politici che contraddistingue il controgolpe erdoganiano, ampiamente presente ben prima del 15 luglio – lo dimostra quanto sta accadendo in queste ore alla riunione dei ministri delle Finanze dei paesi aderenti al G20 in corso a Chengdu. In Cina la delegazione turca sta cercando di ottenere una esplicita dichiarazione di sostegno al governo di Ankara ed al presidente Erdogan. Ma ciò che non è avvenuto nelle quattro concitate ore durante le quali i militari turchi hanno messo in atto un piano miseramente fallito, le cancellerie occidentali non sembrano disposte a concederlo nemmeno ora. Il vicepremier di Ankara, Mehmet Simsek, ha proposto ai suoi colleghi un comunicato finale che richiamasse esplicitamente la riaffermata legittimità del governo turco ma ha ottenuto un rifiuto, in particolare da parte dei rappresentanti dell’Unione Europea. Simsek ha negato la circostanza, ma è stato il commissario all’economia dell’Unione Europea, il francese Pierre Moscovici, a confermarla durante una conferenza stampa.
Intanto vari esponenti del regime turco continuano ad accusare non meglio precisate potenze straniere di essere intervenute in Turchia tramite alcuni settori militari per cambiarne gli equilibri di potere ed imporre i propri interessi. Il presidente Barack Obama durante il fine settimana è dovuto intervenire di persona per smentire un coinvolgimento del suo paese nei fatti del 15 luglio ma sono sempre più numerosi i sospetti che dietro il fallito golpe ci sia proprio Washington, preoccupata del repentino avvicinamento di Ankara alla Russia e a Israele e contrariata dai ripetuti no di Erdogan alle proprie direttive.
Gli Usa dietro il golpe?
Ad esempio Wadah Khanfar, ex direttore di Al Jazeera, afferma che un tentativo di golpe delle dimensioni di quello tentato il 15 luglio scorso non avrebbe potuto essere condotto senza che i militari avessero previamente consultato o comunque informato gli americani. Il richiamo esplicito al mantenimento delle precedenti alleanze internazionali, contenuto nel proclama diffuso dai golpisti la notte di dieci giorni fa, potrebbe riferirsi proprio ad una richiesta di riconoscimento indirizzata, seppur non esplicitamente, ad Ue e Stati Uniti.
A Mosca, vari esponenti politici del partito di maggioranza, “Russia Unita”, hanno affermato che il presidente Vladimir Putin sarebbe convinto che a manovrare i militari ribelli siano stati gli Stati Uniti. Non è un caso che, recuperate da poche settimane le relazioni con Ankara dopo la crisi provocata dall’abbattimento di un caccia di Mosca da parte di un jet turco, Putin sia stato tra i primi capi di stato a chiamare personalmente Erdogan per esprimergli il suo appoggio. Al contrario, mentre i carri armati dei militari golpisti occupavano alcune posizioni chiave ad Ankara ed Istanbul, il segretario di Stato Usa John Kerry si limitava ad una confusa ed ambigua dichiarazione riaffermando esclusivamente l’auspicio che in Turchia fossero salvaguardate l’unità e la stabilità del paese. Solo quando, più tardi, era evidente che il putsch era fallito la Casa Bianca ha diffuso una dichiarazione di solidarietà alle istituzioni democratiche turche, anche stavolta però senza nominare il presidente e senza esprimergli esplicitamente l’appoggio di Washington. Il comportamento dell’Unione Europea è stato simile a quello degli Stati Uniti.
Erdogan si aspettava il golpe
I servizi segreti turchi avevano avvisato Erdogan sulla possibilità di un colpo di stato militare ben 15 volte negli ultimi sei mesi. Ciò spiega, tra le altre cose, perché i golpisti hanno fallito e perché la reazione da parte del regime sia stata tanto rapida quanto brutale, con liste di proscrizione già stilate da tempo che hanno permesso al ‘sultano’, grazie al clima di riconquistata legittimazione, di far arrestare o espellere finora dall’esercito, dalla polizia, dalla magistratura, dall’amministrazione pubblica e dalla scuola quasi 70 mila persone. Alcuni media espressione di movimenti radicali kemalisti e nazionalisti di opposizione, come il Vatan Partisi, avevano più volte avvisato nei mesi scorsi che “l’imperialismo” – cioè potenze straniere occidentali – stava preparando un colpo di mano in Turchia.
Secondo le ricostruzioni più attendibili finora proposte della giornata del 15 luglio, inizialmente il colpo di stato avrebbe dovuto essere attuato agli inizi di agosto, qualche giorno prima la già prevista riunione del Consiglio Militare Supremo che all’ordine del giorno prevedeva una consistente purga di ufficiali e militari considerati vicini a Gulen. Ma le purghe nelle forze armate, e anche alcuni arresti, sono stati anticipati dal regime all’inizio di luglio e correvano insistenti voci che alla fine di questo mese il governo avesse in programma epurazioni ancora più consistenti, con l’intenzione di decapitare i settori gulenisti ancora abbastanza forti nell’esercito. Forse a diffondere le voci sarebbe stato lo stesso regime, per spingere i settori ribelli a uscire allo scoperto.
Fatto sta che il cosiddetto ‘Comitato della Pace’ decise di anticipare l’ammutinamento, fissando l’ora X alle 3.00 di notte del 16 luglio. Ma Erdogan e gli alti comandi dell’esercito vennero avvisati durante la giornata dell’imminente sollevazione – e a quel punto alcuni dei generali aderenti al complotto, fiutando la malaparata, potrebbero essersi sfilati – obbligando i golpisti ad anticipare la loro azione alle 21 del giorno prima. Sappiamo tutti com’è andata a finire.
Erdogan avvisato da Mosca e Teheran?
Insomma non solo Erdogan si aspettava un golpe militare e si era preparato per respingerlo e trarre vantaggio dal suo fallimento, ma il 15 luglio qualcuno avvisò Erdogan di quanto stava per accadere.
Secondo varie fonti furono i servizi di intelligence di Mosca ad allertare i colleghi turchi di quanto stava per accadere, condividendo con il Mit di Ankara le informazioni ottenute dal monitoraggio sulle comunicazioni interne alle forze armate turche probabilmente realizzato a partire dalle base russa di Latakia, in Siria. A diffondere questa versione dei fatti è stata l’agenzia semiufficiale iraniana Fars, anche se il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha in seguito smentito la circostanza.
Chiunque abbia allertato i servizi turchi – anche se in patria i vertici del Mit sono sotto accusa per l’inefficienza dimostrata durante i fatti del 15 luglio – spicca la esplicita dichiarazione di solidarietà inviata dal governo di Teheran a quello di Ankara a poche ore dal fallimento del golpe. Il governo iraniano ha espresso sollievo per il fallimento del putsch e la stampa vicina al presidente Hassan Rouhani ha sottolineato con enfasi il ‘ruolo positivo svolto dal popolo turco che è sceso in strada a difendere la democrazia”. I vertici del paese, da anni in scontro frontale con la Turchia sul terreno siriano ma non solo, sperano ora che la rottura con Washington e la Nato si stabilizzi e che Ankara cerchi un riavvicinamento non solo con Mosca, ma anche con Teheran. Almeno questo sembra essere un auspicio del governo ‘riformista’ iraniano, mentre invece vari organi di stampa conservatori hanno scritto che «il golpe in Turchia è stato pianificato dallo stesso Erdogan per accrescere la sua popolarità e per coprire i gravissimi errori che ha commesso in politica interna ed estera». Anche i leader riformisti iraniani non sembrano del tutto convinti che lo scontro tra Ankara e Washington porterà ad una rottura netta, ma certo vi colgono una opportunità per rompere il fronte avversario e godere degli eventuali benefici. Ad esempio portando gli Stati Uniti, deterioratisi ulteriormente i rapporti con la Turchia, a rafforzare il dialogo con Teheran revocando definitivamente ogni forma di sanzione o restrizione. Oppure, al contrario, convincendo Ankara a cercare nell’Iran un partner regionale insieme al quale bilanciare le crescenti pressioni statunitensi ed europee. A rafforzare la relazione tra due paesi ancora formalmente nemici potrebbe essere proprio la Russia, partner privilegiato dell’Iran che grazie all’intervento delle proprie forze armate in Siria (e al protagonismo militare di Hebzollah) ha recuperato un certo ruolo nella regione sbaragliando i piani dei paesi sponsor dei ribelli jihadisti, tra i quali la stessa Ankara oltre alle petromonarchie.
L’avvicinamento di Ankara alla Russia e all’Iran
Il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo turco si incontreranno nella prima settimana di agosto in Russia, secondo quanto confermato nei giorni scorsi dall’addetto stampa del presidente russo, Dmitry Peskov. “In effetti, oggi, attraverso canali diplomatici viene preparato ed elaborato l’incontro tra Putin e Erdogan. Eravamo d’accordo che questo incontro avrà luogo ai primi di agosto, sarà nella Federazione Russa, ma non viene specificata la città e la data”, ha detto Peskov, che ha negato che l’incontro si terrà a Baku, in Azerbaigian. “Baku deve ospitare la riunione trilaterale dei presidenti di Russia, Azerbaigian e Iran” ha aggiunto Peskov.
Nonostante il carattere strumentale, mutevole e a geometria variabile delle alleanze internazionali in un’epoca di spiccata competizione interimperialistica, l’avvicinamento della Turchia alla Russia sembra avviato. E paradossalmente il tentativo di golpe del 15 luglio, non andato in porto, potrebbe accelerare una tendenza che Washington (e Israele) considerano una iattura. D’altronde la Russia è un partner primario dell’economia turca in profonda crisi.
Quanto all’Iran, i due paesi sono stati a lungo alleati prima dell’esplosione del carnaio siriano in cui Ankara e Teheran si sono ritrovate su fronti opposti, e comunque anche in piena epoca di sanzioni economiche e commerciali internazionali hanno mantenuto un buon livello di scambi con la Turchia che ha in parte violato le restrizioni imposte dalla ‘comunità internazionale’ a causa dello sviluppo da parte iraniana del suo programma nucleare. Il 4 giugno di quest’anno il colosso turco Unit International, guidato da Unal Aysal, ha annunciato la firma di un accordo con il ministero dell’energia dell’Iran per la costruzione di sette centrali, in sette regioni differenti della repubblica iraniana. Gli impianti, la cui costruzione inizierà nel gennaio 2017, produrranno ben 6.020 megawatts, pari al 10% del fabbisogno energetico iraniano, un affare da 4,2 miliardi di dollari.
L’assedio turco alla base Nato di Incirlik
Se gli Stati Uniti, una volta fallito un tentativo di regime change in Turchia da loro presumibilmente ispirato, dovessero andare ad una rottura con Erdogan (o, al contrario, se fosse il regime turco a rompere del tutto con Washington) la Nato perderebbe un importante bastione in Medio Oriente, e rischierebbe di spingere il paese in bocca a Mosca e a Teheran. Una prospettiva che gli apprendisti stregoni della Casa Bianca difficilmente potrebbero permettersi visti i continui rovesci in Medio Oriente e la costante perdita di egemonia nell’area. Nei giorni scorsi il portavoce del dipartimento di stato americano, John Kirby, ha dichiarato che al momento non esiste alcun rischio che la Turchia venga espulsa dalla Nato. Il rischio più concreto è infatti proprio quello che il regime di Ankara, magari non formalmente, allenti ulteriormente le proprie relazioni con l’Alleanza Atlantica rimanendone parte e avvicinandosi nel contempo ai paesi competitori degli Stati Uniti.
Basti guardare quanto sta succedendo intorno alla base turca di Incirlik, utilizzata da migliaia di militari statunitensi per gestire i bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico in Siria, per rendersi conto dello stato dell’arte.
Domenica scorsa, due giorni dopo il fallito golpe, alcuni importanti comandanti della base sono stati arrestati insieme ad una consistente pattuglia di ufficiali e soldati con l’accusa di aver aiutato i golpisti. E’ possibile, ha chiesto la stampa turca e non solo, che i golpisti abbiano operato in una base con una così forte presenza di soldati statunitensi senza che Washington ne sapesse niente? A scanso di equivoci poche ore dopo che Erdogan aveva ripreso il controllo della situazione le autorità turche hanno ordinato l’interruzione della fornitura di energia elettrica alla base di Incirlik, e il blocco delle comunicazioni con l’esterno. Se questa seconda misura è stata interrotta dopo 24 ore, il taglio dell’elettricità è durato parecchi giorni mettendo in allerta il governo degli Stati Uniti che nel frattempo si era visto anche negare il permesso a far decollare i propri caccia verso Siria e Iraq.
La Nato cerca un’alternativa ad Incirlik?
La base di Incirlik, situata a poca distanza dalla città di Adana e a neanche 100 km dalla frontiera con la Siria è strategica per la Nato e per gli Stati Uniti grazie alla sua posizione incuneata in pieno Medio Oriente. A Incirlik sono di stanza la maggior parte dei circa 2.500 militari statunitensi che si trovano in Turchia ed è una delle principali basi operative e logistiche per le operazioni militari contro lo Stato Islamico, ma in generale uno dei pezzi essenziali della scacchiera strategica Usa nella regione dove nel frattempo i russi hanno rafforzato la propria presenza grazie all’intervento in Siria del settembre scorso. Non è un caso che, secondo dichiarazioni di alcuni generali statunitensi, Washington ad Incirlik abbia piazzato ben 50 testate nucleari che non servono di certo al contrasto alle organizzazioni jihadiste.
Se i rapporti tra Stati Uniti e Turchia dovessero saltare, Washington e la Nato dovrebbero risolvere un serio problema: dove trasferire l’infrastruttura militare finora ospitata ad Incirlik?
La questione è così poco peregrina che nei giorni scorsi alcuni media iracheni hanno candidato la base aerea di Qayyarah, la più grande del paese, come alternativa a quella turca. “La posizione geografica della base area di al Qayyarah è molto importante per l’Iraq ed in particolare per la città di Mosul. Ma in realtà la sua vera importanza a livello regionale sta nel dato che potrebbe benissimo diventare una degna alternativa della base Incirlik (in Turchia) per gli Stati Uniti” ha detto alla stampa l’esperto iracheno in questioni militari Ali al Rubaei. “Quando un jet militare decolla dal Qatar, il suo viaggio tra andata e ritorno (per la Siria), dura tre ore e mezzo. Mentre dalla base di al Qayyarah non impiega più di cinque minuti e questo fa risparmiare all’aviazione Usa molto tempo per raggiungere i suoi obbiettivi”, ha aggiunto l’analista iracheno.
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