di Michele Paris
Con una parziale vittoria diplomatica sugli Stati Uniti, la Cina ha
ottenuto lunedì lo stralcio di qualsiasi riferimento esplicito alla
recente sentenza della Corte Arbitrale Permanente de L’Aja sulle contese
nel Mar Cinese Meridionale dal tradizionale comunicato congiunto emesso
durante il summit dei dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del
Sud-Est Asiatico (ASEAN), in corso questa settimana in Laos.
Questo
gruppo di paesi, le cui economie sommate costituirebbero la settima
potenza del pianeta, è da tempo esposto alle pressioni di Washington e
Pechino per orientarne le deliberazioni secondo i rispettivi interessi
strategici. L’ASEAN è diventata in sostanza uno dei terreni di scontro
tra USA e Cina, con i primi che cercano di portare le dispute
territoriali nel Mar Cinese Meridionale al centro delle discussioni di
un forum multilaterale, mentre la seconda continua a prediligere la
soluzione delle controversie su un piano esclusivamente bilaterale.
Come
già era accaduto nei vertici ASEAN degli ultimi anni, anche in questa
occasione le sedute sono state caratterizzate da accese trattative che
hanno visto gli inviati di Washington e Pechino impegnati a convincere i
delegati dei paesi membri a sostenere le loro posizioni.
L’incontro
di Vientiane, la capitale del Laos, ha assunto un’importanza
diplomatica particolare, essendo il primo di questa organizzazione a
tenersi dopo la già citata opinione del tribunale internazionale che, in
base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS), ha accolto in
buona parte la causa intentata dalle Filippine contro la Cina.
Proprio
il governo di Manila, assieme al Vietnam, cioè l’altro paese
maggiormente disposto a seguire la linea provocatoria degli Stati Uniti
nel sud-est asiatico, aveva spinto per convincere gli altri membri
dell’ASEAN a produrre un comunicato ufficiale che facesse riferimento
alla sentenza, fermamente respinta dalla Cina, e alla necessità di
rispettarne il contenuto
Gli alleati di Pechino – il Laos e,
ancor più, la Cambogia – hanno però sostenuto le posizioni della Cina e,
visto che il comunicato ufficiale del vertice deve essere approvato
all’unanimità, da quest’ultimo è alla fine rimasto fuori ogni
riferimento diretto alla sentenza del Tribunale ONU.
La
dichiarazione dell’ASEAN ha soltanto espresso preoccupazione per le
attività in corso nel Mar Cinese Meridionale, senza tuttavia condannare
la Cina, come volevano gli Stati Uniti. I dieci membri hanno poi
riaffermato l’impegno nel “mantenere e promuovere la pace, la stabilità,
la sicurezza e la libertà di navigazione e sorvolo nel Mar Cinese
Meridionale”, assieme all’auspicio di migliorare la “fiducia reciproca”,
nonché l’invito ad agire con moderazione ed “evitare azioni che possano
complicare ulteriormente la situazione”.
Nel comunicato si
chiede infine l’implementazione del cosiddetto “Codice di
comportamento”, ovvero un meccanismo, condiviso dalla Cina, per gestire e
risolvere in maniera pacifica le emergenze e i disaccordi derivanti
dalle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale.
L’amministrazione
Obama non è dunque riuscita nemmeno in questa circostanza a ottenere
una presa di posizione netta contro la Cina da parte dell’ASEAN.
Washington intendeva utilizzare un’eventuale condanna per mostrare alla
comunità internazionale che le proprie politiche di contenimento e
accerchiamento della Cina non rispondono a una logica unilaterale, ma
sarebbero la naturale risposta alle aspirazioni di pace e stabilità dei
paesi della regione.
In
realtà, è precisamente l’inserimento degli USA nelle annose dispute
territoriali che caratterizzano il Mar Cinese Meridionale, così come
quello Orientale, ad avere infiammato una situazione che per decenni non
aveva fatto segnare particolari problemi. Dopo avere lanciato
ufficialmente la propria “svolta” asiatica, gli Stati Uniti hanno da un
lato sollecitato i loro alleati ad assumere atteggiamenti sempre più
aggressivi nei confronti di Pechino, mentre dall’altro hanno intrapreso
la strada dell’escalation militare, sia siglando accordi per il
posizionamento di forze aeree e navali in pianta più o meno stabile in
vari paesi sia conducendo pattugliamenti altamente provocatori
all’interno delle acque o degli spazi aerei reclamati dalla Cina.
Le
ripetute condanne da parte americana sono rivolte inoltre alla
militarizzazione e alle costruzioni cinesi nelle isole e atolli contesi
nel Mar Cinese Meridionale, mentre attività simili, sia pure su scala
ridotta, da parte di altri paesi, come il Vietnam o le Filippine,
vengono puntualmente ignorate, nonostante la dichiarata imparzialità di
Washington sulle dispute territoriali.
L’intenzione degli Stati
Uniti è comunque quella di dividere i paesi del sud-est asiatico dalla
Cina, a costo, come si è visto questa settimana in Laos, di
compromettere la stabilità dell’area e lo stesso funzionamento di un
organo caratterizzato tradizionalmente dal pacifico consenso interno
come l’ASEAN.
Clamoroso fu ad esempio l’esito del summit in
Cambogia nel 2012, quando, soprattutto a causa dell’intervento
americano, per la prima volta dalla nascita dell’organizzazione nel
1967, i paesi membri non furono in grado di accordarsi su un comunicato
ufficiale congiunto.
Malgrado l’impossibilità di ottenere una
condanna aperta della condotta cinese in Laos, gli sforzi degli Stati
Uniti per umiliare Pechino non cesseranno. Il segretario di Stato, John
Kerry, è giunto in Laos lunedì, dove ha avuto discussioni con vari
leader dei paesi ASEAN per fare pressioni a seguire le indicazioni
americane nel prossimo futuro.
Ancora più chiaro era stato
settimana scorsa il vice-presidente, Joe Biden, nel corso di una visita
in Australia e Nuova Zelanda. Il numero due della Casa Bianca era stato
protagonista di discorsi minacciosi, ribadendo la volontà di Washington
di continuare a mantenere una massiccia presenza in Estremo Oriente, al
di là del prossimo occupante della Casa Bianca, e invitando i due
alleati a partecipare più attivamente alle provocazioni anti-cinesi
messe in atto dalle forze navali e aeree americane.
La
portata destabilizzante delle attività diplomatiche e militari in
quest’area del pianeta sta mettendo in seria difficoltà molti paesi,
soprattutto quelli che intendono attuare una politica estera equilibrata
e mantenere relazioni cordiali con USA e Cina. La crescente rivalità
tra le due potenze e il costante declino della posizione internazionale
degli Stati Uniti renderanno però sempre più complicato il mantenimento
di posizioni caute, viste le pressioni esercitate da Washington.
Un
esempio delle conseguenze si potrebbe osservare proprio all’interno
dell’ASEAN, le cui divisioni già esistenti rischiano di trasformarsi in
vere e proprie spaccature. Come ha spiegato una recente analisi del Wall Street Journal,
le frustrazioni degli USA e dei loro alleati per non essere riusciti a
ottenere una dichiarazione di condanna della Cina hanno fatto circolare
la proposta di cambiare le modalità di voto, abbandonando l’unanimità a
favore di una semplice maggioranza per l’approvazione di risoluzioni e
comunicati ufficiali.
Ciò potrebbe indebolire in maniera seria
un’associazione che, inevitabilmente, sulla spinta delle rivalità tra
Washington e Pechino, finirebbe per vedere la formazione di blocchi
contrapposti, favorevoli all’una o all’altra delle prime due potenze
economiche del pianeta.
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